San Cristoforo Martire:

alla ricerca dell'Uomo più forte...!

Martirio di San Cristoforo, Jacques Martin Ferrieres (1930), Javel - Parigi. Le fonti dicono che Cristoforo trovò il martirio nella città di Samone, in Licia.

Cristoforo era un Cananeo, un gigante dotato di grande forza e imponenza fisica. Era un guerriero ed aveva anche un volto che incuteva terrore in tutti (cinocefalia). Aveva un grande desiderio: quello di mettersi al servizio dell’uomo più forte. E si mise alla ricerca. Trovò dapprima un re potente e, ben contento, si mise al suo servizio.
Ma un giorno in presenza di un giocoliere che cantava una canzone nella quale si nominava il diavolo, vide che il re, tutte le volte che lo si nominava, si faceva il segno della croce. Cristoforo, dubbioso e inquieto, chiese al re la spiegazione del suo comportamento. Visto che questi tentennava, minacciò di andarsene. Allora finalmente gli confidò:
“Quando sento nominare il diavolo, mi faccio il segno della croce per togliergli ogni possibilità di nuocermi”.

Cristoforo logicamente concluse che il diavolo era più forte del re. Lo lasciò, e si mise alla ricerca... del diavolo, per mettersi al suo servizio. Vista l’ubiquità del soggetto, non dovette faticare molto in questa ricerca. Infatti percorrendo una landa deserta vide venirgli incontro un personaggio dall’aspetto terribile che gli chiese: “Dove vai e chi cerchi?”. Cristoforo gli rispose: “Sto cercando il signor Diavolo perché ho sentito dire che è il più forte”.

E il diavolo, antico Maestro di menzogna, gli rispose: “Sono io quello che cerchi”. Ed ecco Cristoforo mettersi al suo servizio: lo seguiva e gli obbediva docilmente. Un vero discepolo. Ma un giorno incontrarono una Croce e il diavolo cambiò precipitosamente strada.

La cosa non gli sfuggì: “Che significa questo? Perché eviti la Croce?”. Il diavolo fece finta di non capire e non rispose. Ma l’altro continuò: “Si direbbe che tu ne abbia paura”. Di nuovo silenzio. Poi alla minaccia di abbandonarlo per sempre, il diavolo si vide costretto a “confessare” quell’unica debolezza di aver paura davanti alla Croce da quando un certo Gesù Cristo vi era morto sopra... Cristoforo logicamente concluse: “Allora se hai paura vuol dire che non sei tu il più forte. Addio, camminerò fino a trovare questo Gesù Cristo”.

E abbandonò il diavolo al suo destino.

Di nuovo in cammino, di nuovo alla ricerca del più forte.

“Dov’è Gesù Cristo?”, chiese alla gente.

Gli dissero: “Vai da quell’eremita laggiù. Ti mostrerà Gesù Cristo”.

Andò e lo trovò: era un povero eremita tutto capanna, penitenza e preghiera. “Che cosa devo fare per vedere Gesù Cristo?”, gli chiese subito.

San Cristoforo e Gesù, Melchior Broederlam (XV sec.), Mayer van den Bergh Museum - Anversa. / Pannello di altare domestico che racchiudeva una statua di San Cristoforo venerata in casa presso una famiglia del Nord Europa.

Che domanda. Il povero eremita era sì un santo ma non era esperto nel discernimento dello spirito, non aveva avuto tempo di aggiornarsi. Ed inoltre non conosceva il proverbio che dice che prima di conoscere una persona bisogna consumare un paio di scarpe camminando insieme.

“Digiunare”. Lo guardò perplesso: “Digiunare? Non sono capace. Insegnami un altro mezzo”. Rispose: “Per vedere Gesù Cristo bisogna pregare molto”. Cristoforo rispose: “È un’altra cosa che non posso fare perché non so cosa significhi pregare”. L’eremita allora gli indicò il fiume dicendogli: “Nessuno può attraversarlo senza pericolo di morte. Ebbene, mettiti sulla sua riva: la tua enorme statura e la tua prodigiosa forza ti serviranno a trasportare da una riva all’altra i viaggiatori. Faresti un servizio che a Cristo sarebbe molto gradito. Allora potrai vederlo”.

Soddisfatto finalmente gli rispose: “Questa è una cosa che posso fare e, per servire Cristo, la farò”. E fece proprio così con impegno, giorno e notte, verso tutti senza discriminazione. Ed era anche contento. Ma quando avrebbe visto Gesù Cristo?

Una notte sentì la voce di un bambino che lo chiamava: “Cristoforo, vieni, aiutami ad attraversare il fiume”. Cristoforo uscì dalla sua capanna ma non vide nessuno. E così fu una seconda volta. Nessuno. Alla terza volta finalmente vide un bambino che lo pregava di aiutarlo: “Vieni e trasportami all’altra riva”. Cristoforo si caricò il bambino sulle spalle e cominciò la traversata. Doveva essere una traversata molto semplice invece tutto a poco a poco si complicò.
Il peso sulle spalle aumentava sempre di più, l’acqua saliva sempre di più: e lui, il gigante, per la prima volta, credette di non farcela. Ma ci riuscì anche questa volta. Allora gli disse: “Bambino mio, Tu mi hai messo in un bel pericolo. Pesavi così tanto come se avessi avuto il mondo intero sulle mie spalle”. E il bambino: “Non meravigliarti, Cristoforo, tu hai portato sulle tue spalle non solo il mondo intero, ma anche Colui che lo ha creato. Io sono Gesù Cristo, il padrone che tu servi. In segno della verità delle mie parole, pianta il tuo bastone, vicino alla tua capanna: domattina, lo vedrai carico di fiori e di frutti”. E il bambino sparì.

E l’indomani il suo bastone era una palma carica di datteri...

(Dalla "legenda Aurea" di Jacopo da Varazze)

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San Cristoforo, Joachim Patinier, 1515, El Escorial - Madrid. / La devozione a San Cristoforo si è diffusa grazie a quanto scritto da Jacopo da Varazze nella sua Leggenda Aurea.

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Come si vede è una storia (con elementi di varie culture e influssi anche di stampo mitologico) molto edificante che si presta ad innumerevoli applicazioni, filosofiche, spirituali, catechistiche ed esistenziali.

Così commenta Ernest Hello:

“Cristoforo è un nome terribile. Fare il PortaCristo è qualcosa fuori del comune; forse il mistero del nome contiene il mistero della storia, in ciò che c’è di più nascosto”.

E ha ragione.

Il racconto appena riportato è certamente una bella storia creata da Jacopo da Varazze per giustificare il nome del martire Cristoforo del III secolo (derivatio nominis) ma ha un enorme significato simbolico anche per noi moderni.
Penso che si possa interpretare la vita di ogni uomo su questa terra come un dovere di traghettare, di trasportare gli altri da una riva all’altra, superando un qualche “fiume” pericoloso.

I genitori che decidono una nuova vita, non fanno che traghettare il loro bambino dal regno del non essere a quello dell’essere, della vita. Poi saranno ancora loro che lo traghetteranno dalla riva dell’infanzia a quella della fanciullezza, e poi ancora essi a traghettare, in mille modi, il loro figlio o figlia all’altra riva dell’adolescenza. Un traghettamento quanto mai difficile quello del fiume “adolescenza” per definizione rischioso, turbolento, difficile e talvolta deviante.

I figli a loro volta sono chiamati a traghettare, col proprio amore e assistenza, i propri genitori all’“altra riva” della loro vita. Accompagnarli insomma fino al “passaggio” decisivo, a Dio. E noi insegnanti che cosa facciamo quotidianamente se non cercare di traghettare gli allievi all’altra riva della conoscenza, aiutandoli a superare il fiume pericoloso dell’ignoranza? O la categoria dei dottori, infermieri: non fanno lo stesso? Anche chi guida un autobus, un treno, un taxi, un aereo... o il cameriere in un ristorante non fa che trasportare altre persone ad un’altra “riva” quella desiderata come bene per loro. E così si può dire per tutte le professioni utili alla società.

Tutti insomma siamo chiamati ad essere dei traghettatori del prossimo. E se questo viene fatto con lo stesso spirito di Cristoforo, con dedizione e con amore, come un servizio a Gesù Cristo, allora ciascuno avrà trovato la strada della propria santificazione: originale, diversa e preziosa come lo è ogni singolo fiore del nostro giardino.

Di don Mario Scudu, rivista "Maria Ausiliatrice", luglio 2005

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