Non meno ricco per la sua storia e le sue leggende, anzi direi il più importante, è senza dubbio il monte Sibilla (2150 mt). Dalla sua sommità è possibile contemplare tutto l'immenso scenario dei Sibillini che proprio da questa montagna prendono il nome. Una corona di rocce rosate ne proteggono quasi l'inviolabilità e per questo viene chiamata la "Corona della Sibilla". Un gran numero di leggende che si perdono nella notte dei tempi, sono ruotate attorno a questa montagna. Luoghi famosi grazie all'atmosfera che li ha circondati e alle storie narrate da vecchi montanari: gente semplice che nelle leggende di fate, di streghe, di balli, di un mondo popolato da dame e cavalieri, esprimevano l'interna ed insopprimibile esigenza umana di evadere dalla dura realtà e di rifugiarsi nel mondo del sogno e della fantasia. Leggende che fino a pochi anni fa, quando ancora non esisteva la televisione, amavano raccontare con compiacenza ai più piccoli per ingannare il tempo durante i lunghi mesi invernali. Le avevano apprese mentre pascolavano il gregge, leggendo (chi sapeva leggere) l'eroiche imprese del Guerrin Meschino o dei reali di Francia o della Gerusalemme liberata. Attraverso i secoli, specie nel Medio Evo e nel primo Rinascimento, scrittori, poeti e letterati non solo italiani ma anche stranieri, si sono sbizzarriti a descrivere il fantastico mondo della Sibilla. Alcuni la confondevano con la Sibilla condannata a vagare per le montagne e dove resterà fino al giorno del Giudizio Universale; per altri è la maga buona che predice il futuro, quasi santificata; per altri, infine, è la maga Alcina, diabolica e lasciva, incantatrice di uomini. E proprio in quest'ultimo ambiente si svolgeranno le famose vicende di Guerrin Meschino, uno dei più noti romanzi cavallereschi scritto da Andrea da Barberino. In cerca della propria identità, il protagonista Guerrin Meschino, che si dichiara figlio della sventura, affronterà tutta una sequela di viaggi attraverso l'Asia Minore, l'India, l'Arabia e l'Egitto, dove un eremita musulmano lo consiglia a dirigersi al monte della Sibilla Picena. Solo lei sarà in grado di rivelargli chi siano i suoi genitori. Approfittando di una imbarcazione diretta in Italia, raggiunge la città di Norcia dove prende alloggio presso un'osteria. Qui viene a sapere che la grotta della fata Alcina si trova "nelle montagne lì appresso"; ma viene dissuaso dall'oste, perché "di cento persone che la visitano, ne ritornano appena due". Il mattino seguente si alza per tempo e prega l'oste di mandare suo figlio ad accompagnarlo in città "ad udir messa". Sulla piazza alcuni forestieri si intrattengono a raccontare storie sconvolgenti sull'incantatrice, lasciandolo "molto pensoso". Ormai, però, è deciso ad incontrare la maga: per questo aveva lasciato Costantinopoli ed affrontato tanti pericolosi viaggi. Procuratosi molte candele di cera, una tasca con il battifuoco, tre pani, del buon formaggio ed una fiasca di vino, all'indomani, accompagnato da Anuello, si avvia a cavallo verso la Rocca di Norcia. L'ufficiale del castello cerca anche lui, in tutti i modi, di dissuaderlo a proseguire la sua ardita impresa; ma il Meschino non desiste: vuole ad ogni costo raggiungere la grotta dell'incantatrice. Andando "un po' a piedi e un po' a cavallo" incomincia ad affrontare la dura salita "su per le Alpi": è una via lunga, difficile, chiamata anche oggi "la strada dei cavalli". E' la stessa via che percorrevano i nostri vecchi che, dalle Marche, si recavano nelle piane del Castelluccio a mietere il grano o a raccogliere le lenticchie. Sul far della sera, assai stanco e provato dal faticoso viaggio, giunge ad un romitorio "sito ai piè di due montagne". Sceso da cavallo, bussa all'uscio e subito, dall'interno, uno dei tre eremiti risponde:"Gesù Nazareno, ci aiuti". Si affacciano poi all'uscio tenendo una crocetta in mano; ed uno di essi grida: "tornate indietro maledetti, illusi dalla vanità e dai fantasmi. Chi di voi vuole andare a perdere l'anima ed il corpo?". "Non per vanità... - risponde il Meschino - né per superbia e neppure per disperazione, ma solo per ritrovare di che generazione io son nato; ho cercato in tutto il mondo, e non l'ho potuto sapere, e non riuscirò a saperlo se non vado dall'incantatrice". Chiuso di nuovo l'uscio, i tre monaci si consultano insieme, poi tornano e, dopo di averli aspersi, li fanno entrare offrendo loro ospitalità e dando al Meschino degli ottimi consigli. Doveva, innanzitutto, tenere sempre a mente e nel cuore, specie nei momenti più difficoltosi, l'invocazione: "Gesù Nazareno aiutami"; poi doveva essere in perfetto possesso di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e delle tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Solo così sarebbe stato possibile resistere all'invincibile malia della maga e vincere le sue vane e false lusinghe ed atti disonesti. Il Meschino gradisce molto i consigli dei santi monaci: chiede ed ottiene anche di potere confessare le proprie colpe e riceverne l'assoluzione. E così al mattino, allo spuntare dell'aurora, si cinge la spada, pone alla bisaccia un po' di pane, la pietra focaia ed alcune candele. Abbracciati poi Anuello e i tre eremiti, si avvia verso la montagna tra la commozione di tutti. "Pregate Iddio - chiede ancora il Meschino mentre si va allontanando su per la montagna - che mi rimandi sano e salvo". "Abbi sempre in mente - gli ricorda ancora uno dei monaci - Gesù Nazareno". Il sentiero che porta verso la sommità è lungo, ripido, spesso attraverso burroni e balzi alpestri che più volte mettono in difficoltà la tenacia del Meschino. Solo sul far della sera, stanco, stremato ormai di forze, riesce a guadagnare la grotta: "una largura, a modo di piazza quadrata; eravi gran quantità di pietre rovinate; innanzi a lui era una montagna molto maggiore delle altre. Vide in questa montagna quattro entrate oscure; e perché il sole andava sotto, gli convenne dormire quella sera su pei sassi e la mattina quando fu levato, disse li sette salmi penitenziali e molte orazioni; segnossi, prese una candela accesa in mano e nell'altra teneva la spada ed entrò per mezzo una caverna perché erano quattro, ma pur tornavano tutte in una, e disse tre volte: Gesù Cristo Nazareno, aiutami". Il primo impatto con l'interno della grotta è davvero raccapricciante: i suoi piedi, infatti, vanno ad incespicarsi in un mostruoso serpente che si lamenta di essere stato molestato: è Macco, l'ebreo errante, trasformato in serpente dalla maga Alcina e condannato a starsene fino al giorno del Giudizio in un fosso, a guardia della grotta. Il Meschino continua a discendere e giunge di fronte ad un grande portone dove è scritto: "Chi entra nella grotta e vi rimane più di un anno, non uscirà più ma sarà dannato per sempre". Bussa per ben tre volte: tre bellissime damigelle vengono ad aprire il grande portone. E subito si presenta dinanzi al suo sguardo il regno incantato della maga Alcina: castelli d'oro, ville amene, giardini ricchi di fiori e di fontane, graziose damigelle "che lingua umana non potria dire". Lo introducono dalla maga Alcina che, assisa su di un trono e vestita di un drappo di porpora ricamato in oro ed argento, "lo accoglie con piacevolezza e sforzandosi di fargli i più bei sembianti. La sua vaghezza è così grande che ogni corpo umano ingannerebbe". Il Meschino non esita ad esporle le ragioni della sua visita. Lei lo ascolta volentieri e subito inizia la sua opera di corruzione per tentare di indurlo al peccato e perdere la sua anima. Le prova tutte pur di riuscire nel suo scopo: tentazioni della gola, a cui Meschino resiste cibandosi di pane e sale; tentazioni della carne che riesce a superare ricordandosi degli ammonimenti dei santi monaci e ricorrendo a frequenti giaculatorie; tentazioni di ricchezza, di potenza ma, alla fine, il Meschino si accorge che " l'oro, l'argento, le pietre preziose, i gioielli erano tutti falsi ". Persino la frutta che gli veniva offerta, era falsa "perché fuori stagione". (non so cosa direbbe il Meschino se vivesse ai nostri giorni) tenta perfino di tenergli nascosto il nome dei genitori, nella speranza di potere prolungare di un anno la sua permanenza nella grotta. Tutto, insomma, tenta la maga Alcina pur di farlo cadere nel peccato; ma né le lusinghe della maga e neppure le tenere carezze delle bellissime fate riusciranno a piegare il Meschino, sempre sorretto dal nome di Gesù Nazareno che invoca con fiducia specialmente nei momenti più difficili e dai pii consigli dei santi monaci. Come se tutto ciò non bastasse ogni venerdì, sul far della sera fino al calare del sole del sabato seguente, nella grotta si verifica un avvenimento straordinario: tutti gli abitanti della grotta, maschi e femmine, cambiano figura assumendo l'aspetto di vermi schifosi, a seconda dei peccati che li hanno condotti in quel luogo. Anche questo serve soltanto a confermarlo sempre più nel suo proposito: "Anche se dovessi stare qui diecimila anni - diceva - giammai mi farete peccare". Erano trascorsi ormai sette mesi dal giorno in cui il Meschino aveva messo piede nella grotta. Falliti tutti i piani di seduzione, quindi di dannazione, da parte della maga Alcina, il Meschino, resosi conto che gli avrebbe svelato il nome dei genitori solo se fosse riuscita a farlo peccare, decide di abbandonare la grotta. "Essendo ormai giunto l'ultimo giorno - gli dirà una delle damigelle - per forza della Divina provvidenza, a noi conviene mostrarti l'ora ed il punto di uscire". Lo accompagna fino al grande portone. "Dì alla maga - pregherà la damigella nell'accomiatarsi - che io son vivo e vivrò sano ed allegro, e salverò l'anima mia". Pone così fine alla sua avventura nel regno maledetto. Lungo la via di ritorno, rivede il serpente Macco; attraversato il ruscello, stanco, riguadagna l'entrata della grotta. Dopo essersi un po' riposato riprende il sentiero che lo riporta al romitorio dove Anuello ed i tre eremiti, ormai sul punto di perdere la speranza di poterlo rivedere sano e salvo, lo accolgono con grande allegrezza e lo festeggiano a lungo. Ascoltano con grande interesse il racconto di quanto il Meschino aveva sentito e veduto. Ringraziati di nuovo i tre eremiti per il buon ammaestramento datogli e per la loro ospitalità, risale in sella al suo cavallo e ritorna, insieme ad Anuello, a Norcia dove rimane tre giorni. Da qui prende la via verso Roma dove il Papa lo accoglie con molta comprensione e riconosce la sua retta intenzione. Lo assolve quindi da ogni colpa e gli dona perfino duecento denari d'oro. Tra i personaggi di spicco che, in seguito, si avventureranno nel regno della Sibilla troviamo, proveniente dalla Francia, Antoine de la Sale che nel 1420, trantaduenne, sale fino al monte Corona e visita personalmente l'ingresso della grotta facendone una minuziosa descrizione. Nel "Paradiso della Regina Sibilla" egli racconta alla Duchessa di Borbone che si stava interessando alle ricerche di un cavaliere francese rimasto prigioniero della Sibilla, le cose che aveva veduto e sentito raccontare dagli abitanti di Montemonaco. Da essi aveva ascoltato anche la storia di un cavaliere tedesco e del suo scudiero che dopo essere rimasti quasi per un anno intero nel regno della maga, anch'essi si erano recati a Roma. ma il Papa, contrariamente a come si era comportato con Guerrin Meschino, nega ad essi l'assoluzione e li scaccia da Roma. Ciò li induce a ritornare di nuovo nella grotta e rituffarsi nel peccato. Sarebbe troppo lungo lungo se ci volessimo soffermare a descrivere la potente attrattiva che , attraverso i secoli, ha sempre suscitato e suscita anche oggi il monte Sibilla. Molti personaggi di ogni età e condizione, si sono avventurati fin lassù per potere strappare alla montagna quell'alone di mistero che l'ha sempre circondata. Purtroppo, anch'essa oggi è stata raggiunta dalla politica della ruspa e del cemento; anch'essa ha dovuto soccombere sotto i colpi devastatori dell'uomo che riesce, spesso, a creare delle alterazioni irreversibili di un ambiente che la natura ha faticosamente costruito in tanti millenni. Il suo fianco, nel versante sud, è oggi attraversato da una strada che chiamano "panoramica". Doveva collegare Montemonaco a Forza di Gualdo; ne sono testimoni i picchetti che ancora si possono osservare lungo la montagna. E' una cicatrice che non può più essere rimarginata; uno sfregio sul volto di una montagna che custodiva leggende secolari. Sembra oggi che sia di moda camuffare o addirittura falsificare il significato delle parole: ciò che è vero scempio, non esitano a chiamarlo "strada panoramica". Della famosa grotta oggi non resta che una parvenza di entrata, delle pietre sconnesse che testimoniano i vari tentativi per riaprire quella che fu un tempo la reggia dell'incantatrice Alcina.
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