"Lassù sui monti...",

di padre Pietro Lavini

 - Capitolo V -

Il monte del Priore

Proseguendo il nostro cammino attraverso i monti Sibillini, incontriamo un'altra montagna, forse meno conosciuta, ma indubbiamente più interessante: non tanto per il ciclo di leggende come quelle che sono fiorite intorno al lago di Pilato ed alla grotta della Sibilla, ma soprattutto per la sua storia ricca di un glorioso passato, strettamente legata all'insediamento su di essa dei monaci farfensi ancor prima del secolo VIII, per diventare successivamente un Priorato dipendente del monastero di Fonte Avellana ed, infine un eremitaggio dei monaci riformati del Beato Paolo Giustiniani.

E proprio dalla maggiore autorità di S.Leonardo che stendeva il suo potere su tutta la montagna trarrà il suo nome: la priora. Anticamente la chiamavano monte Regina riallacciandosi forse all'idea della Sibilla Regina. Lo dimostrano le parole che alcuni pastori di Vetice trovarono scolpite su di una pietra. "Dietro le indicazioni di un sogno - mi raccontavano - ci avventurammo un giorno sulla chiesetta di S.Leonardo in cerca del tesoro che un tempo i monaci di Farfa avevano portato seco. Era una giornata in cui la nebbia avvolgeva nel suo grigiore tutta la montagna in modo da non essere scoperti dai pastori di Rubbiano ai quali spettava il diritto di pascolo. Individuato il punto preciso indicatoci dal sogno, incominciammo a demolire le prime pietre. Ad un tratto ci trovammo di fronte ad una iscrizione. Per noi non era facile decifrare quelle parole; le uniche che riuscimmo a leggere e che ancora ricordiamo, furono: "...in monte Regina". Seguitammo a scalzare la pietra ed alla fine ci accorgemmo che la parte superiore era stata chiusa dalla calce. Non c'erano più dubbi: all'interno vi era stato senz'altro nascosto il tesoro. Ma quale non fu la nostra meraviglia quando, ridotta a pezzi la pietra, trovammo soltanto come un plico che subito si disciolse in polvere a contatto con l'aria". Fin qui il racconto dei pastori.

E' un vero peccato che sia andato così miseramente perduto un tesoro di incalcolabile valore! penso, infatti, che si trattasse di una o più pergamene dove era descritta la vita di non so quale persona o di qualche monaco morto in concetto di santità, dato che poco vicino trovarono anche uno scheletro, con il teschio ancora in ottimo stato di conservazione che riposero poi in una busta e che rinvenni quando per la prima volta giunsi a S.Leonardo. Un vero peccato, anche perché avremmo potuto avere qualche notizia in più circa la storia del luogo; invece ci dobbiamo accontentare delle due parole scolpite sulla pietra che ci ricordano il vero nome della montagna. Tenendo conto del rinvenimento, poco vicino, di uno scheletro, è probabile che le due parole si possano ricostruire nella frase "Hic in monte Regina, jaciet...".

Non a caso, anticamente, le avevano dato questo nome: come una regina sul suo trono, essa domina con la sua altezza (2332 mt) e con il suo fascino su tante altre vette che le fanno da corona: il pizzo Berro, acuminato e roccioso, che culmina sul gruppo del monte Bove. Un po' più lontano pizzo Tre Vescovi e tutta la montagna di monte Castel Manardo. verso la parte meridionale, si scorge il monte Sibilla con la sua ammaliante corona; e più lontano il monte Vettore, con la valle del lago di Pilato. E' uno scenario altamente suggestivo, immenso, di particolare effetto. Nei giorni in cui il cielo è più terso e l'aria più pulita è possibile scorgere anche le vette del Gran Sasso e della Maiella che si confondono con l'azzurro del cielo. Non capita tutti i giorni, ma è anche possibile scorgere il mare Adriatico e perfino i lontano monti della Dalmazia. E' un panorama stupendo: la varietà del paesaggio è infinita. Ai suoi piedi scorrono due fiumi che, aprendosi un varco tra le rocce, formano le due vallate del Tenna e dell'Ambro. Quest'ultima si apre tra le pareti a picco del monte Priora a destra e del monte Castel Manardo e pizzo Tre Vescovi a sinistra.

Anche se presenta tratti selvaggi ed inaccessibili, la risalita della valle dell'Ambro costituisce una delle maggiori attrattive. Chi ha avuto la possibilità di visitarla, difficilmente riuscirà a dimenticare la limpidezza di quelle acque dovuta al colore delle rocce che compongono il letto del fiume: rocce bianche con sfumature verdastre che danno al torrente una particolare tonalità ambrata; acque che all'improvviso scompaiono nel sottosuolo per riemergere poi all'improvviso più a valle; gli aspri dirupi che la sovrastano quasi a proteggere il corso del fiume; boschi secolari sfuggiti quasi miracolosamente al massacro dell'uomo e dove è ancora possibile osservare annosi faggi tra i più grandi di tutta la catena montuosa; faggete ancora punteggiate da tassi ed infine l'apparizione di due pareti di rocce verticali alte oltre i sessanta metri e distanti tra loro, in alcuni punti, poco più di mezzo metro. Lo chiamano "Infernaccetto", per distinguerlo dall'Infernaccio che si trova nella valle del Tenna.

Qui per anni e per milioni di anni la natura con un lavoro paziente, incessante, che a noi, abituati a fare tutto in fretta, dà soltanto le vertigini, è riuscita ad aprire un varco attraverso la roccia, con una fenditura molto profonda. Più volte, la curiosità e il desiderio di avventura hanno spinto qualche temerario a profanare la gola; ma le pareti assai viscide e talmente strette da non permettere in qualche punto il passaggio, alcuni gorghi non facilmente superabili anche perché l'acqua è molto fredda; qualche sassolino che cade giù dall'alto, consiglierebbero a desistere dall'impresa. Ma il colpo finale viene dalla presenza di una parete altissima ed assai viscida che sbarra definitivamente la via: "Qui - sembra avvertirci - non si passa". Conviene riprendere la via del ritorno, aggirare la gola per raggiungere poi la sorgente. Ne vale davvero la pena. 

Raggiungere la sorgente dell'Ambro, credo che sia una delle escursioni più suggestive e prestigiose anche se abbastanza impegnative. Più volte, durante la mia permanenza al Santuario dell'Ambro ho avuto la possibilità di raggiungerla insieme ad un mio carissimo amico. La partenza avveniva nelle primissime ore del mattino in modo da poter raggiungere la sorgente sul far del giorno. mentre gli uomini e le cose erano avvolti nel silenzio della notte, soli soletti prendevamo la via della montagna. Solo la tenue luce della luna rischiarava dolcemente la notte illuminando i nostri passi incerti, mentre il mormorio del fiume scorrendo tra sassi e piccole cascate, creava come una meravigliosa sinfonia interrotta, di tanto in tanto, dal lamento di qualche uccello notturno.

"Qui - mi diceva l'amico, giunti ad una località dove la valle appariva meno aspra e le acque avevano interrotto la loro corsa nascondendosi nel sottosuolo - ho trascorso i giorni più belli della mia vita. Sette caprette mi tenevano compagnia, e mi davano la possibilità di sopravvivere". Le parole dell'amico scendevano nel mio animo come una doccia di acqua fredda: mi ponevano dinanzi uno dei problemi più scottanti e più assillanti della vita. Se l'avesse rivolte a qualche altra persona, credo che avrebbe cominciato a dubitare sulle sue perfette condizioni mentali. " E' possibile - mi chiedevo - che quattro lamiere, corrose ormai dalle intemperie e scaraventate dal vento poco lontano, una piccola baracca eretta con pietre messe una sopra l'altra senza calce, sette caprette da cui traeva il necessario per sopravvivere, potevano rendere felice una persona?".

Ero ancora tutto assorto in questi pensieri quando l'amico, violando di nuovo il profondo silenzio ed indicandomi uno scoglio che faceva capolino da un folto bosco di faggi ed illuminato dalla pallida luce della luna, riprese a raccontarmi: "Nei pressi di quello scoglio che vedi lassù tra i faggi, un giorno mi capitò un grave infortunio. Stavo abbattendo una grossa pianta quando l'ascia, scivolando, raggiunse la mia gamba, procurandomi una profonda ferita. Sembrava irrimediabile: l'amico che lavorava con me dopo avermi legato strettamente la ferita con una cordicella si precipitò subito al Santuario dell'Ambro per darne l'allarme ed organizzare subito un pronto soccorso. Bisognava fare in fretta perché un pur minimo ritardo mi poteva essere fatale. Procurate alcune bende, un po' di alcool per disinfettare e alcune cordicelle per costruire sul posto una barella, si incamminarono verso il luogo dell'infortunio. Ma quale non fu la meraviglia, quando, stanchi e trafelati, giunti sul posto mi trovarono seduto sopra una pietra mentre, calmo e tranquillo, mi gustavo un tocco di formaggio ed un pezzo di pane". Cose d'altri tempi!...

Quando l'alba incominciava a diffondere le prime luci, avevamo già oltrepassate le "Roccaccie", attraverso sentieri forse più adatti per capre che per uomini. Anche la fame dopo ore di cammino incominciava a far sentire prepotente i primi stimoli. "Per affrontare la montagna - riprendeva ancora l'amico offrendomi una caramella - ci vogliono cose sostanziose". "Fortuna - pensavo tra me - che la sorgente è ormai vicina".

Uno dei ricordi che più difficilmente riuscirà a cancellarsi dalla mia mente e che rivivo sempre con tanta nostalgia sono senza dubbio quei pochi momenti trascorsi presso la sorgente dell'Ambro. Ci si trova dinanzi ad un ambiente che ci riporta ad alcune decine di anni addietro; ad uno dei pochi esempi di un ambiente ancora incontaminato, non ancora sconvolto dalla civiltà della ruspa e del cemento. Qui tutto è un invito al silenzio, al raccoglimento, alla riflessione; qui tutto è pace, è come un inno alla serenità ed alla gioia, un monito al nostro vivere frenetico. Il profondo silenzio era soltanto incrinato dal mormorio delle acque che sgorgavano da una grotta immersa nel verde, ai piedi del versante nord del monte Priora. Scivolando poi per una parete, creavano come una melodia che si ascolta in sottofondo. trovare un angolo di paradiso come questo penso che oggi non sia troppo facile perché anche la montagna è stata raggiunta dalla contaminazione dell'era consumistica.

Oggi i nostri occhi non sono più abituati ad ammirare certe meraviglie della natura e ringraziare. Colui che con tanta bontà e generosità, ci ha elargito questi doni, e ripetere come il poverello di Assisi "Laudato sii o mio Signore per sora acqua...". Egli aveva ben compreso la grande funzione di questo elemento, indispensabile alla vita e allo sviluppo dell'uomo. La chiama addirittura "sorella" come se tra lui e l'acqua ci fosse stata una stretta relazione di parentela. Tutte le creature, infatti, sono uscite dal cuore e dalla mano provvida di Dio; compreso l'uomo che, a differenza di tutte le altre creature, è dotato di intelligenza e volontà. Tutto il creato quindi, dovrebbe unirsi e formare come un coro potente, dalle mille voci, dalle mille variazioni che si eleva continuamente verso il cielo per lodare e ringraziare il suo Creatore. Tocca proprio all'uomo raccogliere tutte le voci, unirle insieme e farne un inno cosciente.

"Laudato sii o mio Signore per sora acqua, la quale è molto utile et umile et preziosa et casta". In questi quattro aggettivi, il poverello di Assisi ha voluto sintetizzare le principali proprietà di questo grande dono. Se fosse vissuto ai nostri tempi, credo che sarebbe stato d'accordo sull'utilità, umiltà e preziosità dell'acqua, non ceto però sulla sua purezza. Sappiamo dalla Bibbia che "Iddio fin da principio creò le acque e vide che erano cosa buona". Ma ecco l'uomo che riesce a manomettere le opere di Dio: tutto ciò che è stato messo nelle sue mani per il suo bene ed il suo sviluppo spesso viene utilizzato per la sua rovina e la rovina degli altri; cerca di avvalersene per soddisfare gli interessi più personali ed egoistici. E' sempre la sua natura inferiore che lo spinge a sfruttare ogni mezzo che trova a portata di mano.

La Priora: come una regina sul suo trono, essa domina con la sua altezza e con il suo fascino su tutte le altre vette che le fanno corona.

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