"Lassù sui monti...",

di padre Pietro Lavini

Introduzione

"Lei come si chiama?".

Nella luce fragile del mattino la figura minuta di padre Pietro, in piedi davanti alla piccola dimora, pareva una statua scolpita nel monte. La distanza gli sbiadiva i tratti del volto, ma il riflesso di un sole ancora timido trasformava l'ovale grigio della barba in una curiosa aureola come in sospeso sulla sua tuta da lavoro.

"Mi chiamo Gianni", dissi e la voce, in quel silenzio in sospeso, prese il tono di un rimando un po' stonato. Lui restò lì, in un riquadro di sassi, di cime e di boschi, e solo la mano si agitò lentamente nel gesto lieve di un saluto. "Ciao, Gianni", deve aver detto poi, mentre il mio passo correva giù, sulla rotaia del sentierino, o forse quel rincorrersi di suoni nella costruzione di una frase fu soltanto un'eco misteriosa del bosco, come succede in treno, o lo sbatter d'ali di un uccello in volo o uno spiffero di gemiti innescati dalla brezza, o l'urlo del tenna, a valle, che cala tumultuoso tra le rocce in un gioco leggiadro di cascatelle, di note e di guizzi di spuma, nella gelida Gola dell?Infernaccio, spettacolare e minacciosa.

Giorni di un autunno ormai lontano più di vent'anni quelli del primo incontro col frate, dal pomeriggio alla luce di un nuovo giorno. Nella sera la scheggia di un povero cero decorato dalle goccioline rapprese ingigantiva le ombre del cucinino, il buio di fuori, nel riflesso di quel chiarore sembrava una coperta appoggiata sul monte.

"Gradisce un po' di insalata?", propose per cena. Ma era un'offerta dovuta più alla gentilezza che all'ipotesi di un'alternativa, perché quel contorno costituiva tutto quanto, più o meno, passava la dispensa.

E il dialogo andò avanti in un'atmosfera vagamente fuori tempo, accompagnato dal gorgoglio della fontanella di casa e scandito dall'andare dei minuti, tra le pause di un silenzio a precipizio oltre il quale la parola, ogni volta, pareva infrangere un muro.

"Qui c'erano i monaci e qui rimetterò in piedi il monastero", annunciò padre Pietro a un certo punto, e lo sguardo gli si accese di un guizzo di orgoglio e di determinazione. La notte, dentro a una stanzetta del primo piano, prese il ritmo del luogo, lentissimo e un po' solenne, e scivolò interminabile verso l'alba in un rincorrersi di suggestioni e di quesiti. Perché un uomo, alle soglie del Duemila, aveva scelto la solitudine di un capanno sul monte? E per quale spinte interiori un missionario tanto umile e colto si era lasciato alle spalle popoli e viaggi, al contrario del Papa giramondo? E quale messaggio avrebbe potuto diffondere una chiesa così lontana? E com'erano i giorni sulla vetta? E le notti? E il lavoro? E le preghiere? E gli incontri con Dio?

Non chiesi nulla al frate, e la luce della nuova alba portò soltanto quella sua ultima domanda:"Lei come si chiama?". A tutti i quesiti, però, ed anche ad altri, padre Pietro, Armando Lavini col saio, risponde in questo bel libro che mescola la ricerca storica agli aneddoti, la ricerca spirituale alle sensazioni di oltre un quarto di secolo in solitudine, senza mai scivolare, però, nell'insidia della vanità personale.

C'è tutto tra queste pagine: le antiche strade appenniniche per Roma, la nascita dell'ordine dei Cappuccini, le preghiere dei monaci nel monastero di San Leonardo che una volta sorgeva proprio qui, dove padre Pietro l'ha rimesso in piedi, ma anche il suo stupore di bambino a Potenza Picena, dov'è nato, davanti al sole che si alzava, ogni volta maestoso sul mare e poi moriva chissà dove, oltre il rigo di un orizzonte misterioso.

E ancora, l'acquisizione del terreno ceduto alle suore, e il primo giorno sulla vetta e l'afrore mozzafiato del letame nel rudere, e le macerie e la spola per le pietre, e le docce delle Pisciarelle, vicino al Tenna, sublimi e chiare come le righe di rugiada, e le visite dell'aquila e del lupo, e le voci della notte, e la neve e il silenzio, e il gusto di un bicchiere d'acqua e di un tozzo di pane, e i freni paludosi della burocrazia e la fatica e la gioia di vedere il suo progetto, una pietra dopo l'altra, prendere forma e significato senza alcun intervento pubblico.

Padre Pietro ha scritto "Lassù sui monti...", nei ritagli di tempo tra il lavoro e la preghiera, accompagnato dai pensieri e dall'andare ripetitivo delle stagioni, tra rare visite di fungaioli, di cacciatori e di curiosi in gita. E il libro ha preso via via anima e forza, proprio come il monastero che sorge adesso sullo scenario un po' magico dei picchi della Sibilla e della Priora, luogo d'incontro, ormai, per viandanti, curiosi e pellegrini che sempre più spesso prendono il sentiero verso le arcate granitiche del tempio per una visita a questo bravo religioso, partito da un convento nella vallata con la spinta della fede e la grande forza di un'idea, che hanno sconfitto anche una grande rete di perplessità e di scetticismo.

Di materiale non resterà nulla, al religioso, del suo lungo lavoro: né una lira degli introiti del volume né un sasso del nuovo monastero. Solo le pagine di questo volume buttato giù nel silenzio dei Sibillini, mentre cadeva la neve o nel tepore di un tramonto o nell'annuncio di una nuova alba. Perché padre Pietro ha scelto di rimanere un piccolo frate dalle tasche vuote e dal cuore lindo come l'aria sul monte, e di portare avanti le sue regole così lontane dal binomio "quattrini e proprietà", falsi valori di questo mondo terreno con il loro opaco corredo di invidie, ansie e di cupidigia. Lui, l'ostinato, piccolo saio delle vette, resta quello di un primo passo di un giorno lontano: un uomo semplice e felice, titolare unico di un grande patrimonio di chi ha l'animo ricco e neppure una lira nella sacca.

Gianni Leoni
(Inviato speciale de "Il Resto del Carlino", Bologna)

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