Come gli ottocento di Otranto salvarono
Roma
Furono
martirizzati cinque secoli fa nella regione più orientale d'Italia, la più
esposta agli attacchi dei musulmani. L'obiettivo del califfo Maometto II
era di conquistare Roma, dopo aver già preso Costantinopoli. Lo fermarono
dei cristiani pronti a difendere la fede col sangue
di Sandro Magister
ROMA, 14 agosto 2007 – Si legge nel
Martirologio Romano, cioè nel calendario liturgico dei santi e beati
aggiornato a norma dei decreti del Concilio Vaticano II e promulgato da
Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ricorda e venera...
"... i circa ottocento beati martiri che a Otranto, in Puglia,
incalzati dall'assalto dei soldati ottomani a rinnegare la fede, furono
esortati dal beato Antonio Primaldo, anziano tessitore, a perseverare in
Cristo, e ottennero così con la decapitazione la corona del martirio".
Il martirio di questi ottocento avvenne nell'anno 1480 e nel giorno della
loro memoria liturgica, il 14 agosto. Per loro, cinque secoli dopo, nel
1980, Giovanni Paolo II si recò a Otranto, la città italiana in cui furono
martirizzati.
E quest'anno, il 6 luglio, Benedetto XVI ha autenticato definitivamente il
loro martirio, con un decreto promulgato dalla congregazione delle cause
dei santi. Ma chi furono gli ottocento di Otranto? E perché furono uccisi?
La loro storia è di straordinaria attualità. Come tuttora attuale è il
conflitto tra islam e cristianesimo, nel quale essi sacrificarono la vita.
È quanto mostra nel racconto che segue – apparso il 14 luglio scorso su
"il Foglio" – Alfredo Mantovano, giurista cattolico, senatore della
repubblica e conterraneo di quei martiri, nato nel sud della Puglia, la
regione di Otranto:
"Pronti a morire mille volte per Lui..."
di Alfredo Mantovano
Il 6 luglio 2007 Benedetto XVI ha ricevuto il prefetto della congregazione
per le cause dei santi, cardinale José Saraiva Martins, e ha autorizzato
la pubblicazione del decreto di autenticazione del martirio del beato
Antonio Primaldo e dei suoi compagni laici, “uccisi in odio alla fede” a
Otranto il 14 agosto del 1480.
Antonio Primaldo è l’unico del quale è stato tramandato il nome. Gli altri
suoi compagni di martirio sono ottocento ignoti pescatori, artigiani,
pastori e agricoltori di una piccola città, il cui sangue, cinque secoli
fa, è stato sparso solo perché cristiani. Ottocento uomini, i quali hanno
subito cinque secoli fa il trattamento riservato nel 2004 all’americano
Nick Berg, catturato da terroristi islamici in Iraq mentre svolgeva il suo
lavoro di tecnico antennista e ucciso al grido di “Allah è grande!”. Il
suo boia, dopo avergli recisa la giugulare, passò la lama attorno al
collo, fino a staccare la testa, e quindi la mostrò come un trofeo.
Esattamente come fece nel 1480 il boia ottomano con ciascuno degli
ottocento otrantini.
* * *
L’esecuzione di massa ha un prologo, il
29 luglio 1480. Sono le prime ore del mattino: dalle mura di Otranto
comincia a scorgersi all’orizzonte e diventa sempre più visibile una
flotta composta da 90 galee, 15 maone e 48 galeotte, con 18 mila soldati a
bordo. L’armata è guidata dal pascià Agometh; e costui è agli ordini di
Maometto II, detto Fatih, il Conquistatore, cioè il sultano che nel 1451,
ad appena 21 anni, era salito a capo della tribù degli ottomani, a sua
volta impostasi sul mosaico degli emirati islamici un secolo e mezzo
prima.
Nel 1453, alla guida di un esercito di 260 mila turchi, Maometto II aveva
conquistato Bisanzio, la “seconda Roma”, e da quel momento coltivava il
progetto di espugnare la “prima Roma”, la Roma vera e propria, e di
trasformare la basilica di San Pietro in una stalla per i suoi cavalli.
Nel giugno 1480 valuta i tempi maturi per completare l’opera: toglie
l’assedio a Rodi, difesa con coraggio dai suoi cavalieri, e punta la
flotta verso il mare Adriatico. L’intenzione è di approdare a Brindisi, il
cui porto è ampio e comodo: da Brindisi progetta di risalire l’Italia fino
a raggiungere la sede del papato. Un forte vento contrario costringe però
le navi a toccare terra 50 miglia più a sud, e a sbarcare in una località
chiamata Roca, a qualche chilometro da Otranto.
* * *
Otranto era – ed è – la città più
orientale d’Italia. Ha un passato ricco di storia: le immediate vicinanze
erano abitate probabilmente già dal Paleolitico, certamente dal Neolitico.
Era stata poi popolata dai messapi, stirpe che precedeva i greci, quindi –
conquistata da costoro – era entrata nella Magna Grecia e, ancora, era
caduta nelle mani dei romani, diventando presto municipio. L’importanza
del suo porto le aveva fatto assumere il ruolo di ponte fra oriente e
occidente, consolidato sul piano culturale e politico dalla presenza di un
importante monastero di monaci basiliani, quello di san Nicola in Casole,
di cui oggi restano un paio di colonne, sulla strada che conduce a Leuca.
Nella sua splendida chiesa cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088,
nel 1095 fu impartita la benedizione ai dodicimila Crociati che, al
comando del principe Boemondo I d’Altavilla, partirono per liberare e per
proteggere il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Di ritorno dalla Terra Santa,
proprio a Otranto san Francesco d’Assisi era approdato nel 1219, accolto
con grandi onori.
* * *
Quando sbarcano gli ottomani, la città
può contare su una guarnigione di soli 400 uomini in armi, e per questo i
capitani del presidio si affrettano a chiedere aiuto al re di Napoli,
Ferrante d’Aragona, inviandogli una missiva. Cinto d’assedio il castello,
nelle cui mura si erano rifugiati tutti gli abitanti del borgo, il pascià
Agometh, tramite un messaggero, propone una resa a condizioni vantaggiose:
se non resisteranno, uomini e donne saranno lasciati liberi e non
riceveranno alcun torto. La risposta giunge da uno dei maggiorenti della
città, Ladislao De Marco: se gli assedianti vogliono Otranto – fa sapere –
devono prenderla con le armi.
Al nunzio è intimato di non tornare più, e quando arriva un secondo
messaggero con la medesima proposta di resa, costui viene trafitto dalle
frecce. Per togliere ogni equivoco, i capitani prendono le chiavi delle
porte della città e in modo visibile, da una torre, le scagliano in mare,
alla presenza del popolo. Durante la notte, buona parte dei soldati della
guarnigione si cala con le funi dalle mura della città e scappa. A
difendere Otranto restano soltanto i suoi abitanti.
* * *
L’assedio che segue è martellante: le
bombarde turche rovesciano sulla città centinaia di grosse palle di pietra
(molte sono ancora oggi visibili per le strade del centro storico della
città). Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, gli ottomani
concentrano il fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: aprono
una breccia, irrompono nelle strade, massacrano chiunque capiti a tiro,
raggiungono la cattedrale, nella quale in tanti si sono rifugiati. Ne
abbattono la porta e dilagano nel tempio, raggiungono l’arcivescovo
Stefano, lì presente con gli abiti pontificali e con il crocifisso in
mano. All’intimazione di non nominare più Cristo, poiché da quel momento
comanda Maometto, l’arcivescovo risponde esortando gli assalitori alla
conversione, e per questo gli viene reciso il capo con una scimitarra.
Il 13 agosto Agometh chiede e ottiene la lista degli abitanti catturati,
con esclusione delle donne e dei ragazzi di età inferiore ai 15 anni.
* * *
Così racconta Saverio de Marco nella
"Compendiosa istoria degli ottocento martiri otrantini" pubblicata nel
1905:
“In numero di circa ottocento furono presentati al pascià che aveva al
suo fianco un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni,
apostata della fede. Costui impiegò la satannica sua eloquenza a fin di
persuadere a’ nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il
maomettismo, sicuri della buona grazia d’Acmet, il quale accordava loro
vita, sostanze e tutti qui beni che godevano nella patria: in contrario
sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n’ebbe uno di nome
Antonio Primaldo, sarto di professione, d’età provetto, ma pieno di
religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: 'Credere tutti in
Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui'".
Aggiunge il primo dei cronisti, Giovanni Michele Laggetto, nella "Historia
della guerra di Otranto del 1480" trascritta da un antico manoscritto e
pubblicata nel 1924:
“E voltatosi ai cristiani disse queste parole: 'Fratelli miei, sino
oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e per salvar la vita e
per li signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar
l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in croce
conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede e
con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la gloria del
martirio'. A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con
molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia
sorta di morte che di rinnegar Cristo”.
* * *
Agometh decreta la condanna a morte di
tutti gli ottocento i prigionieri. Al mattino seguente, questi vengono
condotti con la fune al collo e le mani legate dietro la schiena al colle
della Minerva, poche centinaia di metri fuori dalla città. Scrive, ancora,
De Marco:
“Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data
innanzi; onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione e,
prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui
odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co’ suoi, anzi in
questi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a’
commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che
stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli.
Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il
busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de’ carnefici, restò
immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento
evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl’infedeli,
se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel
mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei, profittò avventurosamente del
miracolo e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena
del palo”.
Durante il processo per la beatificazione degli ottocento, nel 1539,
quattro testimoni oculari riferirono il prodigio di Antonio Primaldo, che
restò in piedi dopo la decapitazione, e la conversione e il martirio del
boia. Così racconta uno dei quattro, Francesco Cerra, che nel 1539
aveva 72 anni:
“Antonio Primaldo fu il primo trucidato e senza testa stette immobile, né
tutti gli sforzi dei nemici lo poter gettare, finché tutti furono uccisi.
Il carnefice, stupefatto per il miracolo, confessò la fede cattolica
essere vera, e insisteva di farsi cristiano, e questa fu la causa, perché
per comando del bassà fu dato alla morte del palo”.
* * *
Cinquecento anni dopo, il 5 ottobre 1980,
Giovanni Paolo II si reca a Otranto per ricordare il sacrificio degli
ottocento. È una splendida mattina di sole nella spianata sottostante il
Colle della Minerva, dal 1480 chiamato Colle dei Martiri. Il pontefice
polacco coglie l’occasione per rivolgere un invito, attuale allora come
oggi:
“Non dimentichiamo i martiri dei nostri tempi. Non comportiamoci come se
essi non esistessero”.
Il papa esorta a guardare oltre il mare, e richiama espressamente le
sofferenze del popolo di Albania, al quale in quel momento, sottoposto a
una delle più feroci realizzazioni del comunismo, nessuno rivolgeva
l’attenzione. Sottolinea che “i beati martiri di Otranto ci hanno lasciato
due consegne fondamentali: l’amore alla patria terrena e l’autenticità
della fede cristiana. Il cristiano ama la sua patria terrena. L’amore
della patria è una virtù cristiana”.
* * *
Il sacrificio degli ottocento di Otranto
non è importante soltanto sul piano della fede. Le due settimane di
resistenza della città consentono all’esercito del re di Napoli di
organizzarsi e di avvicinarsi a quei luoghi, così impedendo ai 18 mila
ottomani di dilagare per la Puglia. I cronisti dell’epoca non esagerano
nell’affermare che la salvezza dell’Italia meridionale fu garantita da
Otranto: e non solo quella, se è vero che la notizia della presa della
città inizialmente aveva indotto il pontefice allora regnante, Sisto IV, a
programmare il trasferimento ad Avignone, nel timore che gli ottomani si
avvicinassero a Roma.
Il papa recede dall’intento quando il re di Napoli, Ferrante, incarica il
figlio Alfonso, duca di Calabria, di trasferirsi in Puglia, e gli affida
il compito di riconquistare Otranto. Il che accade il 13 settembre 1481,
dopo che Agometh era tornato in Turchia e Maometto II era morto.
* * *
Ciò che rende questo straordinario
episodio pieno di significato, anche per l’uomo europeo di oggi, è che
nella storia della cristianità non sono mai mancate testimonianze di fede
e di valori civili, né sono mai mancati gruppi di uomini che hanno
affrontato con coraggio prove estreme. Mai però è accaduto un episodio di
proporzioni collettive così vaste: un’intera città dapprima combatte come
può e tiene testa per più giorni all’assedio; e poi respinge con fermezza
la proposta di abiurare la fede. Sul Colle della Minerva, al di fuori del
vecchio Antonio Primaldo, non emerge alcuna individualità, se è vero che
degli altri ottocento martiri non si conosce il nome: a riprova del fatto
che non sono pochi singoli eroi, bensì è una popolazione intera che
affronta la prova.
* * *
Il tutto succede anche per l’indifferenza
dei responsabili politici dell’Europa dell’epoca, di fronte alla minaccia
ottomana.
Nel 1459 il papa Pio II aveva convocato a Mantova un congresso al quale
aveva invitato i capi degli stati cristiani, e nel discorso introduttivo
aveva delineato le loro colpe di fronte all’avanzata turca. Ma benché in
quella assise venga decisa la guerra per contenere questa avanzata, poi
non segue nulla, a causa dell’opposizione di Venezia e della noncuranza
della Germania e della Francia.
Dopo che i musulmani conquistano l’isola di Negroponte, appartenente a
Venezia, una nuova alleanza contro gli ottomani proposta da papa Paolo II
viene fatta fallire dai signori di Milano e di Firenze, pronti ad
approfittare della situazione critica nella quale si trova la Serenissima.
Il decennio successivo, con Sisto IV che diventa pontefice nel 1471,
registra l’omicidio di Galeazzo Sforza duca di Milano, l’alleanza
antiromana del 1474 fra Milano, Venezia e Firenze, la fiorentina Congiura
dei Pazzi del 1478 e la guerra che ne segue fra il papa e il re di Napoli,
da una parte, e dall’altra Firenze, aiutata da Milano, da Venezia e dalla
Francia... Il tutto con grande vantaggio per gli ottomani, come scrive
Ludwig von Pastor nella sua "Storia dei papi":
“Lorenzo il Magnifico, che aveva ammonito Ferrante di non prestarsi al
gioco e alle aspirazioni degli stranieri, fu proprio lui a sollecitare
Venezia perché si accordasse con i turchi e li spingesse ad assalire le
sponde adriatiche del regno di Napoli, al fine di turbare i disegni di
Ferdinando e del figlio. [...] La Serenissima, firmata nel 1479 la pace
con i turchi aderì al disegno del Magnifico nella speranza di riversare
sulla Puglia l’orda musulmana che da un momento all’alto poteva abbattersi
sulla Dalmazia, dove sventolava il vessillo di san Marco. [...] E gli
uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure [...] a sollecitare
Maometto II a invadere le terre del re di Napoli, ricordandogli i vari
torti subiti da questi. Ma il sultano non aveva bisogno di questi
consigli: da 21 anni attendeva il momento buono per sbarcare in Italia, e
fino ad allora era stata proprio Venezia, la diretta avversaria sul mare,
ad impedirglielo”.
* * *
Se la storia non è mai identica a sé
stessa, tuttavia non è arbitrario cogliere dai suoi sviluppi analogie e
similitudini: esattamente mille anni dopo il 480, anno della nascita di
san Benedetto da Norcia – un umile monaco alla cui opera l’Europa deve
tanto della sua identità – altri umili interpretano l’Europa meglio e più
dei loro capi, pronti a combattersi reciprocamente piuttosto che a
fronteggiare il nemico comune.
Quando gli otrantini si trovano di fronte alle scimitarre ottomane, non
traggono dal disinteresse dei re il motivo per un proprio disimpegno;
forti della cultura nella quale sono cresciuti, pur se la gran parte di
loro non ha mai imparato l’alfabeto, sono convinti che resistere e non
abiurare la fede costituisca la scelta più naturale. Si provi a parlare
oggi con un nostro soldato che è tornato dall’Iraq o dall’Afghanistan,
dopo aver completato il periodo di missione: ciò che si ascolta con
maggiore frequenza è la sua meraviglia per le discussioni e per i
contrasti infiniti sulla nostra presenza in quelle regioni. Per questi
soldati è naturale che si vada ad aiutare chi ha necessità di sostegno, e
che si garantisca la sicurezza della ricostruzione contro gli attacchi
terroristici.
A Otranto nel 1480 nessuno ha esposto bandiere arcobaleno, né ha invocato
risoluzioni internazionali, né ha chiesto la convocazione del consiglio
comunale perché la zona fosse dichiarata demilitarizzata; nessuno si è
incatenato sotto le mura per “costruire la pace”.
Per due settimane, i quindicimila abitanti della città hanno bollito olio
e acqua, finché ne hanno avuti, e li hanno rovesciati dalle mura sugli
assedianti. E quando sono rimasti in vita soltanto ottocento uomini adulti
e sono stati catturati, sono andati incontro di loro volontà alla fine che
oggi fanno in Iraq e in Afghanistan gli iracheni, gli afgani, gli
americani, gli inglesi, gli italiani, e altri ancora, quando vengono
sequestrati dai terroristi. Ottocento teste sono state tagliate una dopo
l'altra, senza che, in quell'epoca, dei cronisti politicamente corretti ne
censurassero il racconto. Se oggi conosciamo bene questa straordinaria
vicenda, è perché chi l’ha descritta è stato oggettivo e rigoroso.
* * *
Oggi l’Europa è attaccata non – come
nell’episodio storico richiamato – da una compagine islamica
istituzionalmente organizzata, bensì da un insieme di organizzazioni non
governative di ultrafondamentalisti islamici. Tenuta presente questa
differenza strutturale, non è fuori luogo chiedersi quanto c’è oggi in
occidente, in Europa, in Italia, di quella “naturalità” che ha portato una
intera comunità a "difendere la pace della propria terra” fino al
sacrificio estremo.
Il quesito non è fuori luogo, se si riflette che nella lotta al terrorismo
un elemento realmente decisivo è la saldezza del corpo sociale, o comunque
di gran parte di esso, di fronte alla minaccia e ai modi più efferati di
concretizzazione della stessa. La memoria di Otranto non vale soltanto a
sottolineare che vi sono momenti in cui resistere è un dovere, ma prima
ancora a ricordare a noi stessi chi siamo e da quali comunità discendiamo.
* * *
È importante ricordare che nel 1571,
novant’anni dopo il martirio di Otranto, una flotta di stati cristiani
arresta l'avanzata turco-islamica nel Mediterraneo al largo di Lepanto.
Lo scenario europeo non era migliorato: la Francia faceva lega con i
principi protestanti tedeschi per contrapporsi agli Asburgo e si
compiaceva della pressione che i turchi esercitavano contro l’impero
asburgico nel Mediterraneo. Parigi e Venezia non avevano mosso un dito per
difendere i Cavalieri di Malta dall’assedio navale condotto contro di loro
da Solimano il Magnifico. Questo vuol dire che la vittoria di Lepanto non
è stata il frutto della convergenza di interessi politici; al contrario,
si è realizzata nonostante le divergenze. La straordinarietà di Lepanto
sta nel fatto che nonostante tutto, per una volta, principi, politici e
comandanti militari hanno saputo accantonare le divisioni e unirsi per
difendere l’Europa.
Questa unione si è realizzata soprattutto perché la politica europea del
XVI secolo conservava una visione del mondo sostanzialmente comune,
fondata sul cristianesimo e il diritto naturale. E se oggi tante menti
agnostiche abitano l'Europa in piena libertà, è anche perché qualcuno a
suo tempo ha speso tempo, energie e anche la propria vita per la buona
causa, dal momento che la vittoria degli altri avrebbe fatto cadere in
mani musulmane l’Italia e forse anche la Spagna.
* * *
Otranto insegna che una civiltà
culturalmente omogenea – o anche solo in prevalenza animata da principi di
realtà – è capace di reagire in modo sostanzialmente compatto a difesa
della propria pace, e lo fa senza calpestare la propria identità e la
propria dignità.
Oggi la cristianità romano–germanica come civiltà omogenea non esiste più.
Né vale la tesi secondo la quale la cristianità, finché è esistita,
sarebbe stata una realtà speculare alla comunità islamica. Tre differenze
strutturali impediscono qualsiasi sovrapposizione o analogia rispetto alla
"umma" islamica: nella cristianità vi è distinzione fra la sfera politica
e quella religiosa, vi è il fondamento del diritto naturale, vi è il
rispetto della coscienza della persona umana. La riflessione su quanto
accaduto nel 1480 permette tuttavia di individuare tre capisaldi attorno
ai quali rifare unità: e cioè il riferimento al diritto naturale, la
riscoperta delle radici cristiane dell’Europa e l’amor di patria, quest’ultimo
esplicitamente evocato da Giovanni Paolo II quale lascito dei martiri di
Otranto.
* * *
Nella Sacra Scrittura, quando Dio mette a
conoscenza Abramo dell’intenzione di distruggere Sodoma e Gomorra (Genesi
18, 16 ss). Abramo tenta di intercedere e gli dice: “Davvero sterminerai
il giusto con l’empio? Forse ci sono 50 giusti nella città: davvero li
vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta
giusti che vi si trovano?”. Ricevuta l’assicurazione da Dio che per
riguardo a quei 50 giusti avrebbe perdonato l’intera città, Abramo va
avanti, in una sorta di ardita trattativa: e se ce ne fossero 45, 40, 30,
20, o soltanto 10? La risposta di Dio è la medesima: “Non la distruggerò
per riguardo a quei dieci”. Ma non se ne trovarono né 50, né 45, né 30,
né 20 e neanche 10; e le due città furono distrutte.
Questa pagina della Scrittura è terribile per la sorte di annientamento
che prospetta alle civiltà che rinnegano i valori inscritti nella natura
dell’uomo. È una pagina che è stata dolorosamente riletta tante volte,
soprattutto nel XX secolo, di fronte alle rovine del nazionalsocialismo e
del socialcomunismo realizzato. Ma è altrettanto confortante per chi
ritiene che la centralità dell’uomo e la coerenza con i principi
costituiscano non soltanto il punto di partenza, ma pure la strategia per
chiunque voglia fare politica.
* * *
Nel 1480 quel brano della Genesi trova
un’applicazione particolare: l’Europa, ma in particolare la sua città
più importante, Roma, vengono risparmiate dalla distruzione non “per
riguardo”, bensì “per il sacrificio” di 800 sconosciuti pescatori,
artigiani, pastori e agricoltori di una città marginale.
Colpisce che quanto accadde a Otranto non abbia avuto, e ancora non abbia,
il riconoscimento diffuso che merita. La stessa Chiesa ha atteso cinque
secoli, e un pontefice straordinario come Karol Wojtyla, per proclamare
beati quegli 800. Il decreto del 6 luglio 2007 di Benedetto XVI autorizza
a intendere il loro “martirio” come storicamente e teologicamente
accaduto. È la premessa per la loro canonizzazione, che seguirà quando
sarà accertato il miracolo. La Chiesa, anche quella otrantina, mantiene un
doveroso riserbo sul punto, ma tutti sanno che l’intercessione degli 800
ha già procurato tanti miracoli; manca solo il riconoscimento ufficiale. I
martiri di Otranto non hanno fretta: le loro ossa accolgono chi visita la
cattedrale ordinate in più teche, nella cappella situata alla destra
dell’altare maggiore.
Ricordano che non solo la fede, ma anche la civiltà hanno un prezzo: un
prezzo non monetizzabile, paradossalmente compatibile con l’aver ricevuto
la fede e la civiltà come doni inestimabili.
Quel prezzo viene chiesto a ciascuno in
modo differente, ma non ammette né saldi né liquidazioni.
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