Roma chiama Pechino. Ma la linea è spesso
interrotta |
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Tra Cina e Vaticano, i
segnali di avvicinamento si alternano a improvvise chiusure. Le
quattro sedie vuote del sinodo. Il nuovo vescovo riconosciuto sia
dal governo che dal papa. L’arrivo delle suore di Madre Teresa. “La
Civiltà Cattolica” tira le somme.
di Sandro Magister |
ROMA, 27 ottobre 2005 – Durante le tre
settimane del sinodo mondiale dei vescovi che si è da poco concluso in
Vaticano, quattro sedie sono rimaste vuote: quelle dei quattro vescovi
della Cina continentale invitati dal papa ma bloccati in patria dalle
autorità cinesi.
Nell’omelia della messa conclusiva del sinodo, domenica 23 ottobre in
piazza San Pietro, Benedetto XVI ha espresso la sua “viva pena” per
la loro assenza, e la vicinanza sua e di tutta la Chiesa al “sofferto
cammino” della Chiesa cinese. La Santa Sede si era messa in moto da un
anno per far partecipare i quattro vescovi al sinodo, ottenendo
inizialmente dei segnali incoraggianti.
Aveva anche ben studiato quali vescovi invitare. Dei quattro, due erano da
tempo riconosciuti dal governo di Pechino: Antonio Li Duan, vescovo di
Xian, e Aloysius Jin Luxian, vescovo di Shanghai. Un altro, Luca Li
Jingfeng, vescovo di Fengxiang, era stato riconosciuto dal governo solo un
anno fa, senza però essere stato obbligato ad iscriversi all'Associazione
Patriottica. Il quarto, Giuseppe Wei Jingyi, vescovo di Qiqihar, era privo
di riconoscimento. L’intento di Roma era di mostrare la loro comune
appartenenza alla stessa Chiesa, nonostante i diversi tragitti di
ciascuno.
Ma alla fine il permesso a recarsi a Roma non è stato concesso a nessuno
dei quattro.
Ciascuno di essi ha scritto una lettera al papa, in latino, per
ringraziarlo ed esprimergli la sua piena fedeltà. Le lettere sono arrivate
in Vaticano nei primi giorni di ottobre. Il 18, il cardinale segretario di
stato Angelo Sodano ha letto in aula quella scritta dal vescovo di
Fengxiang, Li Jingfeng. Benedetto XVI ha risposto a tutti per lettera. Ma
il carteggio non è stato reso pubblico. L’unico testo che il Vaticano ha
reso noto, il 22 ottobre, è stata la lettera scritta ai quattro vescovi
cinesi dall’insieme dei vescovi del sinodo.
Il giorno dopo che la sua lettera era stata letta in sinodo, il vescovo Li
è stato convocato dall’ufficio affari religiosi della provincia di Shaanxi.
In altri tempi, per un simile atto sarebbe stato accusato di tradimento a
servizio di una potenza straniera. Invece, l’indomani, il vicepresidente
dell’Associazione Patriottica che controlla la Chiesa ufficiale, Liu
Banian, ha dichiarato in televisione che l’invito del papa ai quattro
vescovi “esprime la grande cura che Benedetto XVI ha nel voler
migliorare i rapporti diplomatici tra Cina e Vaticano”.
* * *
Negli stessi giorni del sinodo, è giunta
notizia della morte del vescovo Pietro Zhang Bairen, della diocesi di
Hanyang nella provincia di Hebei.
Scomparso a 91 anni, Zhang ne aveva passati 24 in carcere e ai lavori
forzati. Apparteneva alla Chiesa cosiddetta “sotterranea”, quella priva di
riconoscimento ufficiale. Nonostante ciò, le autorità cinesi hanno
consentito che per lui fossero celebrati funerali pubblici, nel suo
villaggio natale. E nonostante si fosse scoraggiata la partecipazione
popolare, sono accorsi 7 mila fedeli. Ai funerali – concelebrati il 15
ottobre da 15 preti – hanno assistito anche esponenti governativi locali,
portando una corona di fiori con scritto: “Al vecchio signor Zhang
Bairen”.
Tre giorni dopo, il 18 ottobre, a Wanxian nella provincia di Sichuan è
stato ordinato un nuovo vescovo, Paolo He Zeging. Il nuovo vescovo è stato
assegnato come ausiliare all’attuale titolare della diocesi, Giuseppe Xu
Zhixuan. E questi, all’inizio del rito, ha comunicato ai presenti che
l’ordinazione avveniva con l’approvazione della Santa Sede, oltre che con
il riconoscimento del governo. Nel 2005, questa è la terza ordinazione
episcopale che avviene con questo doppio riconoscimento parallelo. Le
precedenti due hanno riguardato le ordinazioni di Giuseppe Xing Wenzhi a
Shanghai e di Antonio Dang Mingyan a Xian.
Un’area della diocesi del nuovo vescovo sarà sommersa dalle acque del
Fiume Azzurro, lo Yang Tze, una volta ultimata la grande diga delle Tre
Gole. Ma il governo ha autorizzato la diocesi a ricostruire più a monte le
cinque chiese che andranno perdute. Il nuovo vescovo He ha 37 anni. Con
lui la Chiesa cinese allinea una nuova generazione di vescovi tra i più
giovani al mondo: audace scommessa sul futuro. Di quelli ordinati nel
2004, quattro su cinque hanno meno di 40 anni. Di quelli ordinati nel
2005, due su tre. Tutti hanno l’approvazione sia di Roma che delle
autorità cinesi. Questa della doppia approvazione è ormai una realtà quasi
generalizzata. Anno dopo anno, Roma ha dato il suo riconoscimento ai
vescovi insediati dal governo cinese con l’intento di creare una Chiesa
separata. E viceversa, le autorità della Cina tacitamente accettano oggi
che i nuovi vescovi formalmente eletti con le procedure fissate dal
governo abbiano la previa approvazione della Santa Sede.
Intervenendo in sinodo il 12 ottobre, il vescovo di Hong Kong, Giuseppe
Zen Ze-kiun, l’ha detto con chiarezza:
“Dopo lunghi anni di separazione forzata, la stragrande maggioranza dei
vescovi della Chiesa ufficiale è stata legittimata dalla magnanimità del
Santo Padre”.
E viceversa:
“Specialmente negli ultimi anni risulta sempre più chiaro che i vescovi
ordinati senza approvazione del romano pontefice non vengono accettati né
dal clero né dai fedeli. Si spera che davanti a questo ‘sensus Ecclesiae’
il governo di Pechino veda la convenienza di venire a una normalizzazione
della situazione, anche se gli elementi ‘conservatori’ interni alla Chiesa
ufficiale vi pongono resistenza per ovvii motivi di interesse”.
Insomma:
“La Chiesa in Cina, apparentemente divisa in due, una ufficiale
riconosciuta dal governo e una clandestina che rifiuta di essere
indipendente da Roma, è in realtà una Chiesa sola, perché tutti vogliono
stare uniti al papa”.
Pur tra enormi difficoltà, dunque, è in corso una ricomposizione unitaria
della comunità cattolica cinese, che influisce anche sui rapporti tra la
Santa Sede e la Cina. Il tentativo del regime comunista di sottomettere e
separare da Roma una parte consistente della Chiesa nazionale può
ritenersi fallito. Un altro segnale recente di cambiamento è l’invito
fatto lo scorso aprile da autorità cinesi alle suore di Madre Teresa di
Calcutta ad aprire una loro casa in Cina. Suor Nirmala, attuale madre
generale dell’ordine, si è recata in Cina a metà luglio a visitare il
luogo prescelto, Qingdao nella provincia di Shandong. E ora è in attesa
del via libera.
* * *
Benedetto XVI segue con molta attenzione
quello che accade in Cina. Ed è a sua volta sotto osservazione da parte
delle autorità cinesi. Il suo principale libro di teologia, “Introduzione
al cristianesimo”, è stato tradotto da un editore di Shanghai ed è andato
presto esaurito nelle librerie statali, dove quasi mai i testi della
Chiesa cattolica ottengono il nulla osta alla vendita.
Prima ancora che il comunismo, infatti, è la tradizionale subordinazione
delle religioni al potere sovrano, tipica della cultura cinese, a rendere
difficile l’instaurarsi in Cina di una piena libertà religiosa. Fino
all’epoca moderna non esisteva in Cina una parola per dire “libertà”, né
in senso filosofico né in senso politico. E la parola che oggi è entrata
in uso dà comunque l’idea che la libertà sia qualcosa di concesso
all’individuo da un potere superiore. Dell’attuale situazione della Chiesa
cattolica in Cina dà un interessante ritratto un articolo apparso su “La
Civiltà Cattolica” del 15 ottobre 2005, qui sotto riprodotto in gran
parte, per gentile concessione della rivista.
Edita a Roma da un collegio di gesuiti, “La Civiltà Cattolica” passa
all’esame dalla segreteria di stato vaticana prima della stampa di ogni
suo numero. Quindi riflette autorevolmente il punto di vista della Santa
Sede sulle questioni trattate, in questo caso sulla Cina. L’autore
dell’articolo, gesuita, è professore emerito di teologia all’Università di
Bonn.
La Cina si sta aprendo.
Impressioni di un viaggio
di Hans Waldenfels, S.I.
Sono stato per la terza volta nella Cina continentale nel giugno scorso,
senza contare i miei numerosi soggiorni a Hong Kong e a Taiwan. [...] A
Pechino ho avuto occasione di tenere lezioni in tre istituzioni
scientifiche, con le discussioni che ne sono seguite. Da una parte, i
colleghi hanno sottolineato che la scienza è un luogo di libertà, nel
quale si può dire e pensare, ad alta voce, quello che si vuole. Ma,
dall’altra, non si può passare sotto silenzio il fatto che a partire
almeno dal 2003 sono state imposte di nuovo evidenti restrizioni e censure
ai lavori scientifici. Questo controllo vale soprattutto per testi di
natura religiosa e di ordine ideologico universale, ma anche per la
filosofia della religione. In tale ambito va anche ricordato che nel
frattempo non si sente più parlare o, per lo meno, non si percepisce più
alcuna risonanza dei cinesi detti “cristiani di cultura”, noti già da
tempo in Europa: si tratta per lo più di intellettuali che non sono
battezzati, ma che accordano una grande rilevanza al cristianesimo sul
piano della vita culturale e simpatizzano fortemente a suo favore.
Nelle mie lezioni ho potuto esprimere senz’altro considerazioni di ordine
filosofico-religioso su questioni ermeneutiche e problemi linguistici, e
anche sul rapporto tra fede e ragione, e sul dialogo tra buddismo e
cristianesimo. Ma la cosa più importante era di adottare sempre una
prospettiva scientifica e di non parlare mai in termini di una confessione
religiosa. Da questo punto di vista il concetto di “teologia” è sempre
sospetto. Ma questo non esclude che si mostri interesse per le radici
della civiltà europea, e anche per i suoi sviluppi in epoca antica o nel
Medioevo, con tutte le sue acquisizioni scientifiche e letterarie. Bisogna
aggiungere inoltre che anche in Cina, come in tutti gli altri paesi del
mondo, la componente umanistica deve lottare fortemente per ritagliarsi un
suo posto tra le soverchianti scienze della natura e della tecnica. Al
primo posto c’è evidentemente una visione utilitaristica. E a questo
riguardo si capisce bene perché un monaco taoista, interrogato sul perché
gli uomini pratichino una loro religione, abbia dato questa risposta:
“Fanno affari con gli dèi”.
Si trovano tradotti in Cina alcuni libri che prendono una certa distanza
dal cristianesimo istituzionale, o per il loro contenuto, come, ad
esempio, i libri di Hans Küng, o perché difendono una teologia
pluralistica della religione, come, ad esempio, i libri di John Hick o
Paul Knitter. Recentemente sono stati tradotti in cinese anche
l’”Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger e la teologia morale
di Karl-Heinz Peschke. Zhuo Xingping ha pubblicato nel 1998 un libro sulla
teologia attuale del cattolicesimo occidentale. È disponibile anche una
certa documentazione, come quella relativa al simposio sull’impegno
cristiano nella società odierna, organizzato a Pechino nel 2001 dalla
Misereor. Con mia sorpresa ho trovato anche alcune pubblicazioni del
letterato e linguista austriaco Leo Leeb, che in futuro potrebbero
contribuire in maniera incisiva a costruire un dialogo interculturale.
Curiosità e interesse si notano ovunque in Cina. Ma non si devono
sottovalutare neppure i timori che si manifestano nei confronti di
aperture troppo ampie. Probabilmente in futuro si avrà più bisogno di
pazienza che di polemiche.
* * *
Hebei è la provincia che comprende
Pechino e la vicina Tianjin (Tientsin). Nella provincia di Hebei ci sono
otto diocesi ufficiali, quattro delle quali si trovano nel territorio in
cui si erano insediate un tempo le missioni dei gesuiti. Ma Hebei è anche
la provincia dalla quale giungono da tempo brutte notizie, come ancora
ultimamente — nei giorni della morte di Giovanni Paolo II e dell’elezione
di Benedetto XVI — quella dell’arresto di un vescovo e di un sacerdote
della comunità clandestina, e dei disordini che ne sono conseguiti. [...]
Ho potuto visitare due vescovi abbastanza giovani, poco sopra i 40 anni, a
Xianxian e a Jiangxian, una diocesi che oggi prende il nome dalla località
di Hengshui. Questi due vescovi impressionano anzitutto per la loro
giovinezza e la loro influenza personale, ma dicono anche di poter
disporre di un clero giovane e, soprattutto, di numerose giovani
religiose, descrivendo questa loro situazione come esemplare.
È immensa l’autocoscienza che questi cristiani rivelano, ma tale è anche
lo spirito missionario che manifestano. Il vescovo Li Liangui di Xianxian
parlava di 70.000 cattolici su sette milioni di abitanti. Egli lavora con
circa 100 sacerdoti e 260 suore. Nella sua diocesi ci sono 50 parrocchie,
16 cliniche, tre ospedali, un asilo infantile, una casa per anziani e una
per bambini disabili. Nel seminario minore ci sono 40 seminaristi, mentre
15 sono prossimi all’ordinazione. Incidentalmente egli ha anche affermato
di aver imparato molto, assieme ai suoi confratelli, dai vecchi gesuiti
che hanno continuato ad assistere la gente nei villaggi più sperduti. Con
lui ho potuto far visita brevemente al suo predecessore, l’ottantottenne
vescovo Liu Dinghan, gesuita, con il quale si poteva comunicare soltanto
per iscritto, ma agevolmente, per via della sua sordità.
A Jiangxian o Hengshui, secondo quanto riferisce il vescovo Pietro Feng
Xinmao, ci sono 26.000 cattolici su un milione e mezzo di abitanti. Tra
loro lavorano 30 sacerdoti e 75 suore. Le comunità sono grandi. Ne ho
conosciute due o tre. Un giovane parroco cura 40 comunità e sette località
dotate di una chiesa o di una cappella, e un altro, in un distretto
chiaramente più antico, cura una parrocchia con 20 comunità, che hanno 15
chiese. Quest’ultimo, nella cura dei suoi 1.500 fedeli, è coadiuvato da un
cappellano e da due preti più anziani, già a riposo. Si tratta
prevalentemente di comunità rurali, nelle quali la Chiesa sta crescendo.
In una piccola località, nella quale il vescovo alla fine di maggio aveva
potuto consacrare una piccola chiesa, si era cominciato tre anni prima con
un’unica donna anziana. Nel giorno della consacrazione la comunità contava
180 fedeli, e durante la celebrazione della messa il vescovo aveva
battezzato 20 adulti.
* * *
Nel 1983, la Chiesa cinese ufficiale dava
ancora un’impressione di chiusura, per non dire di spavento. Si vedevano
soltanto vescovi e sacerdoti anziani, e similmente fedeli di una certa
età. Il legame con la Chiesa universale era costituito dalla messa
tridentina, in latino. Nei messali latini, nel canone romano era stata
ricoperta la riga che conteneva la menzione del papa. Ora però, ovunque si
vada, la santa messa viene celebrata nella lingua materna, su un altare
rivolto verso il popolo. Il nome del papa viene pronunciato sempre ad alta
voce nel canone. Ovunque si vada si può vedere il ritratto del nuovo papa
Benedetto XVI.
I testi liturgici sono stati allestiti a Taiwan. E non c’è stata nessuna
difficoltà a trasferire questi testi sul continente. Se si chiede quale
sia stata la data ufficiale in cui si è introdotta la nuova liturgia, la
risposta resta nel vago. A quanto pare, non è giunta nessuna disposizione
"dall’alto", ma si è cominciato a fare così all’inizio degli anni Novanta,
poco dopo il 1992-93. Si sono così costituite comunità liturgiche in cui
si ama cantare e pregare ad alta voce, per quanto ho potuto constatare, a
Pechino e nella provincia, con una grande partecipazione di fedeli di
tutte le età, ma soprattutto, delle giovani e giovanissime generazioni, e
anche di uomini. Quelli con cui ci si incontra manifestano gioia e
fiducia, ma anche una forte determinazione. Ai laici compete la loro parte
nella liturgia: la proclamazione delle letture, le preghiere dei fedeli,
la processione offertoriale e tutto quello che già da tempo si pratica.
Nelle comunità che ho potuto visitare era una cosa normale che ci fossero
anche i consigli pastorali. Se tutto questo non trae in inganno, si nota
chiaramente che le responsabilità sono equamente distribuite tra sacerdoti
e laici.
* * *
Di fronte a questa situazione viene
spontaneo chiedersi che cosa significhi in Cina “Chiesa romana”.
All’estero da molto tempo si è diffusa l’impressione che in Cina ci fosse
una Chiesa cattolica divisa. Secondo tale visuale c’era da un lato la
Chiesa ufficiale dominata politicamente dall’Associazione Patriottica, con
vescovi nominati dal governo cinese, che esercitavano il loro ufficio
senza l’approvazione della Santa Sede: questa veniva chiamata in maniera
riduttiva ed errata “Chiesa patriottica”; mentre, dall’altro lato, c’era
una comunità non riconosciuta dal governo e perciò strettamente
sorvegliata e perseguitata, con vescovi nominati dalla Santa Sede, senza
riconoscimento da parte del governo: e questa viene detta “Chiesa
clandestina”.
Dobbiamo però anzitutto modificare un’immagine che si è divulgata con tale
denominazione: Chiesa clandestina non significa in molti casi che non
possegga edifici ecclesiastici pubblici. In molti luoghi ci sono chiese a
cui si può accedere pubblicamente. Si può anche dare il caso che la
cattedrale di un vescovo clandestino sia più grande di quella del vescovo
ufficiale parallelo. Tuttavia, dove non si dispone di un locale proprio
per la chiesa la messa viene celebrata spesso in luoghi privati. Tra i
protestanti, l’uso delle cosiddette “chiese domestiche” è ancora più
radicato che presso i cattolici. Un estraneo non è in grado di percepire
come si configuri la situazione concretamente nei singoli luoghi, ed è
perciò indotto a fraintendere. Ma si può dire che la situazione generale
ora è cambiata, se si tengono presenti le seguenti considerazioni.
Secondo le statistiche rese note pubblicamente, il numero dei cattolici in
Cina si aggira complessivamente sui 12 milioni. Vi sono 74 vescovi
ufficiali e 46 clandestini, 2.710 sacerdoti, di cui 1.000 nella
clandestinità e 1.710 nella comunità ufficiale, 5.200 religiose, 1.700
nella clandestinità e 3.500 nella comunità ufficiale; nel 2003, 800
seminaristi nella clandestinità e 580 nella comunità ufficiale, e infine
800 novizie di ordini religiosi in ciascuno dei due gruppi ecclesiastici.
Bisogna aggiungere poi che dei 74 vescovi ufficiali soltanto una decina o
poco più non sono riconosciuti da Roma. Si tratta dunque di una realtà
soddisfacente, ma che suscita nello stesso tempo alcuni problemi.
Mentre in passato si era diffusa l’impressione che la maggior parte dei
vescovi della comunità ufficiale si fosse riconciliata successivamente e
perciò avesse ottenuto il riconoscimento da Roma, al presente si può
constatare una situazione completamente diversa. Prima di essere
consacrati vescovi della comunità ufficiale, i candidati normalmente
cercano di ottenere la nomina dalla Santa Sede.
Questo è il caso dei due giovani vescovi che ho visitato nella provincia
di Hebei. E ciò si è verificato anche a Shanghai per Giuseppe Xing Wenzhi,
preconizzato successore del vescovo del luogo, gesuita, Aloysius Jin
Luxian, e suo vicario generale, consacrato il 28 giugno 2005. Con il
riconoscimento da parte di Roma del successore di Jin Luxian, c’è da
prevedere per il futuro che non sarà nominato un successore anche del
vescovo della parallela comunità clandestina di Shanghai, Giuseppe Fan
Zhongliang, finora riconosciuto da Roma, ma non da Pechino.
Questo non è il primo caso, come si legge invece sulla stampa ufficiale,
ma certo il più rilevante per l’importanza che spetta a Shanghai
nell’intero Paese. Si è raggiunto sostanzialmente lo stesso risultato
anche con la consacrazione dei due vescovi di Hebei, che abbiamo
menzionato prima, e in particolare nel caso del secondo, Pietro Feng
Xinmao, consacrato il 6 gennaio 2004. Il giorno della sua consacrazione,
Feng ha insistito che si leggesse pubblicamente l’atto di nomina da parte
di Roma. Inoltre egli aveva richiesto che i tre vescovi consacranti
fossero vescovi riconosciuti da Roma. Quello che così si è messo in moto
può servire da modello e dovrà essere portato avanti in futuro con grande
sensibilità e pazienza.
* * *
La situazione che abbiamo descritto rende
evidente che in Cina si sta realizzando una nuova permeabilità tra le due
istituzioni. Diversi fattori vanno tenuti presenti. Il problema più grave
si pone senza dubbio per i vescovi che operano nella clandestinità e per i
loro fedeli. Qui la situazione sembra presentarsi in maniera
differenziata. Vi sono regioni in cui le autorità locali rinunciano a
insediare vescovi propri, per cui il vescovo lì presente non ufficialmente
viene a trovarsi di fatto in una situazione di tacita approvazione da
parte delle autorità del luogo.
Sono più problematiche invece quelle regioni in cui continuano a
sussistere, come prima, due sistemi paralleli. La soluzione cui si può
giungere in questi casi può essere anche che Roma rinunci a dare una
successione alla linea ritenuta non ufficiale dal punto di vista
governativo, per il fatto che nell’ambito della Chiesa locale ufficiale si
è giunti o si sta giungendo a una nuova intesa. In questo senso ci sono
già regioni in cui in pratica non si parla più di una “Chiesa
clandestina”.
D’altra parte non c’è da aspettarsi che i fedeli si adattino ovunque e
senza riserve a queste nuove situazioni e che aderiscano prontamente e
senza esitazioni a una forma di Chiesa verso la quale hanno finora nutrito
dubbi, dopo aver sperimentato a lungo oppressioni e persecuzioni. Troppe
ferite non sono ancora sanate. Su questo punto Roma non può non tener
conto di quello che ha subìto la Chiesa negli altri paesi in cui le sue
strutture sono state oggetto di oppressione. La Santa Sede deve però anche
tener presente che, a partire almeno dalle lotte per le investiture
medievali, si è andata sviluppando una lunga storia dei rapporti tra stato
e Chiesa, che si è prolungata in modi diversi fino ai nostri giorni e che
aiuta a trovare soluzioni in vista di un rapporto soddisfacente e
realistico tra le parti.
Abbiamo già accennato occasionalmente a un problema che però può trovare
una soluzione su un piano puramente pratico. Esso consiste nel fatto che i
confini delle diocesi ufficiali spesso non coincidono con quelli che
esistevano prima, e che sopravvivono nelle Chiese non ufficiali. Su questo
punto vi sono opposizioni umanamente comprensibili, ma anche desideri che
possono venir presi in considerazione sul piano politico.
* * *
Nell’ambito dei problemi che interessano
i rapporti tra Roma e la Cina si menzionano sempre la questione di Taiwan
e la nomina dei vescovi. Per quanto riguarda Taiwan, già da tempo vi sono
segni che si deve cominciare a parlarne e che la questione sembra
risolvibile. Si presenta invece più difficile il secondo problema, che si
è sempre posto in questi termini: mentre il governo cinese considera la
nomina dei vescovi una questione interna alla Cina, la Santa Sede, anche e
soprattutto per motivi teologici, afferma che qui si tratta di una
questione che va regolata non sul piano politico, ma su quello religioso
interno. A lungo è sembrato che le due posizioni coesistessero l’una
accanto all’altra senza potersi conciliare tra loro. Ma in questi ultimi
tempi è dato intravedere che si stanno aprendo nuove possibilità di
soluzione, almeno pragmaticamente.
Questi passi in avanti, che sono diventati evidenti, non significano certo
che in breve tempo si possa superare e risolvere il divario che esiste tra
la cultura cinese e la sensibilità giuridica occidentale, come pure
l’assetto politico che domina in Cina già da quasi un secolo. Sono
necessari tempi lunghi.
D’altra parte, in questo confronto tra i due mondi non va trascurato il
peso che viene accordato ad alcune personalità, al di là di ogni
considerazione teorica sull’essenza della persona. I capi politici della
Cina possiedono una grande levatura, ma anche le figure dei papi fanno
sentire il loro profondo influsso fino in Cina. Anche a me è stata
posta più volte la domanda se il nuovo papa andrà in Cina.
Una donna era la nostra guida quando, l’ultimo giorno, ho fatto visita al
luogo dove sino ad oggi sono sepolti i grandi gesuiti Matteo Ricci, Adam
Schall von Bell, Ferdinand Verbiest e altri. Ci avevano dato un dépliant
in due lingue. Il luogo si trova all’interno di un grande centro di
formazione del partito, ma la nostra guida, che non conosceva la nostra
identità, durante il percorso ci ha fatto notare due edifici che nelle
loro strutture fondamentali risalgono all’antica epoca dei gesuiti. Essa
ha aggiunto che c’è un progetto che prevede di ripristinarli nella loro
forma primitiva. Questi edifici certamente non saranno restituiti alla
Compagnia di Gesù, ma si vede chiaramente come la storia continui a
operare. Nonostante i contrasti e le ambivalenze che queste impressioni si
trascinano dietro, prevale in fondo l’ottimistica convinzione che anche in
Cina il senso della realtà, la verità, l’attenzione verso tutto ciò che è
umano e la libertà si stiano avviando su una nuova strada.
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