Metamorfosi. L’ultimo cardinal Martini
Era il papabile dei
progressisti e il profeta di un Concilio Vaticano III. Ma poi s’è
ritirato a Gerusalemme a studiare e pregare. Ecco un suo recente
autoritratto. Autentico
di
Sandro Magister |
ROMA
– La mattina di lunedì 10 gennaio 2005, poche ore dopo l’elezione di Abu
Mazen a presidente dell’Autorità Palestinese, Giovanni Paolo II ha rivolto
al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il tradizionale
discorso d’inizio d’anno. Al Medio Oriente, “terra così cara e sacra ai
credenti nel Dio di Abramo”, il papa ha dedicato parole colme di speranza.
Ha detto che “il crudele confronto delle armi pare sopirsi, ed aprirsi uno
sbocco politico verso il dialogo ed il negoziato”.
Ma ha aggiunto che “una pace vera e duratura [...] è una forza che l’uomo
da solo non riesce a ottenere né a conservare: è un dono di Dio. E Cristo
è venuto proprio per portarla all’uomo, come gli angeli hanno cantato sul
presepe di Betlemme: ‘Pace agli uomini che Dio ama’". Pace come opera
dell’uomo e come grazia di Dio. Pace come frutto delle arti politiche e
come dono della preghiera. C’è a Gerusalemme un insigne uomo di Chiesa che
agisce e prega proprio per una pace come quella invocata dal papa.
È il cardinale Carlo Maria Martini, 78 anni, gesuita, per anni professore
di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma, poi arcivescovo
di Milano dal 1980 al 2002, oggi tornato ai suoi amatissimi studi biblici,
a Gerusalemme. Ma non è tutto. Il cardinale Martini è stato a lungo anche
il candidato numero uno dei progressisti alla successione a Giovanni Paolo
II. E lo è tuttora, non più di fatto ma in simbolo. È a lui e al suo
celebre “sogno” enunciato nel sinodo dei vescovi del 1999 che si ispirano
i fautori di un Concilio Vaticano III e di una riforma sinodale del
governo della Chiesa. Quanto c’è di mito e quanto di realtà in questa
immagine del cardinale Martini? Chi si augurava (o temeva) che egli,
libero dal peso dell’arcidiocesi di Milano, avrebbe non diminuito ma
intensificato l’annuncio dei propositi riformatori, è stato contraddetto
dai fatti.
Martini ha molto ridotto le sue uscite pubbliche. Predica molto, ma
soprattutto esercizi spirituali (nel novembre 2004, ad esempio, ai preti
della diocesi di Roma, su invito del cardinale Camillo Ruini). Continuano
a uscire suoi libri, ma per decisione più di altri che sua. Egli li
descrive così:
“Ci sono tanti libri che portano il mio nome, ma io non li ho mai
scritti né letti. Cose dette in qualche occasione, poi altri le hanno
trascritte. Se un editore vuol correre il rischio di stamparlo io non dico
di no, purché metta che il testo non è stato rivisto dall’autore. Se poi
fanno anche del bene, sono contento, perché chi legge ascolta la parola di
Dio e non la mia”.
Questa confidenza il cardinale Martini l’ha fatta lo scorso 10 ottobre,
conversando con una delegazione dell’Istituto Paolo VI di Brescia, in
visita a Gerusalemme per ricordare il quarantesimo anniversario del
viaggio di Paolo VI in Terra Santa, il 4, 5 e 6 gennaio del 1964. La
trascrizione dell’intera conversazione è apparsa sul notiziario n.48 del
novembre 2004 dell’Istituto Paolo VI, alle pagine 91-100. Qui di seguito
ne è riprodotta una parte, la più rivelatrice. In essa, il cardinale
Martini parla di sé, del suo ritorno a Gerusalemme, dei suoi studi, della
sua preghiera, della sua predicazione, del suo equo “intercedere” per una
pace difficile ma non impossibile nella terra di Gesù. Un autoritratto
fedele di un grande uomo di Chiesa. In questa sua nuova stagione di vita.
”Avvinto dallo Spirito vado a
Gerusalemme, senza sapere che cosa mi capiterà”
di Carlo Maria Martini
Una volta, nel corso di un’udienza privata, Paolo VI mi disse
testualmente: “Vorrei che ogni cristiano almeno una volta in vita si
rechi a Gerusalemme”. [...] Io sono a Gerusalemme ormai da due anni.
Ho consegnato il pastorale al mio successore [a Milano] il 28 settembre
2002 e il 1 ottobre ero qui. Ho ancora impegni a Roma come cardinale:
praticamente vivo qui otto mesi all’anno e gli altri quattro mesi li
trascorro a Roma, dove abito vicino al Santuario di Belloro, in una casa
di ritiro e di esercizi dei padri gesuiti.
Qui [a Gerusalemme] risiedo al Pontificio Istituto Biblico, fondato alla
fine degli anni Venti, come succursale del Pontificio Istituto Biblico di
Roma. [...] Al momento ospitiamo studenti che frequentano il corso
semestrale dell’Università Ebraica. Fui io che iniziai trent’anni fa
questo legame organico con tale università, che ci fornisce corsi che
consideriamo validi come i nostri corsi del Biblico. Quindi invitiamo
tutti i nostri studenti a frequentare un semestre di studio presso
l’Università Ebraica, che propone corsi di lingua, di archeologia, di
storia, di esegesi, ecc. Purtroppo sono pochi coloro che accettano, su
circa cento studenti ne vengono quindici o venti, credo per motivi
riconducibili alla paura [...].
Che cosa mi ha portato a Gerusalemme? Quando mi chiedono il perché io
abbia scelto di vivere a Gerusalemme, rispondo che non lo so. È stato lo
Spirito Santo. Sono quelle ispirazioni di cui non si può rendere ragione
logica. Mi viene in mente sempre quel passo degli Atti degli Apostoli al
capitolo 20 in cui Paolo dice agli anziani di Efeso e Mileto: “Avvinto
dallo Spirito vado a Gerusalemme senza sapere che cosa mi capiterà”. Mi
sono lasciato attrarre da questa parola e da questa forza dello Spirito.
Qui vivo molto bene, sono molto contento di essere qui perché Gerusalemme
è veramente un luogo di simboli straordinari, è un luogo in cui si respira
la storia biblica, dai patriarchi, ai profeti, fino a Gesù, alla sua
passione, morte e resurrezione. È un luogo pieno di fascino per il
cristiano, per il credente, perché qui è stato Gesù, questa è stata la
terra che Lui ha visto, il cielo che Lui ha contemplato, le pietre che Lui
ha calpestato, i luoghi dove ha sparso il suo sangue, i luoghi in cui si è
diffusa la parola: “È risorto”. Io trovo qui un’ispirazione continua per
la mia preghiera, per la mia meditazione. Vivo, inoltre, la preghiera che
definisco d’intercessione, nel senso etimologico della parola, “cammino in
mezzo” a diversi contendenti senza voler dare ragione o torto né all’uno
né all’altro, ma pregando ugualmente per tutti. La situazione politica
odierna è così intricata e aggrovigliata che anche un competente farebbe
fatica a spiegare oggettivamente ciò che è avvenuto, perché e come. Non
conosco l’arabo, so l’ebraico biblico, ma non quello moderno. Non ho
titoli per giudicare. Ho preferito [...] mettere in pratica la parola di
Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati”. Qui soffrono tutti molto. È
difficile dire: “Soffre di più quello, soffre di più questo”. Chi comincia
la lista delle ragioni, dei torti? Si va all’infinito. E non si uscirà se
non con qualche passo nuovo.
D’altra parte questo luogo non è solo luogo di conflitto, è soprattutto
luogo di dialogo. Si svolgono molti dialoghi a livello di base: dialoghi
tra ebrei e cristiani, dialoghi tra ebrei e musulmani, dialoghi triplici
tra ebrei, musulmani e cristiani. Ci sono moltissime istituzioni a
Gerusalemme che coltivano queste forme di dialogo. E ci sono anche tante
iniziative di accoglienza, di perdono, di riconciliazione, di aiuto, di
assistenza, di volontariato. Ciò è veramente straordinario.
Ho incontrato qualche tempo fa due persone che sono molto conosciute nella
vita professionale di questo paese, un ebreo e un arabo. Entrambi hanno
avuto in famiglia un lutto per la violenza e hanno deciso di mettersi
insieme per capire l’uno la sofferenza dell’altro. Così è nato un gruppo
di famiglie, ciascuna delle quali ha un figlio o una figlia uccisi dal
terrorismo, dalla guerra, ecc. Queste famiglie si ritrovano regolarmente,
si parlano fra loro, fanno iniziative di pace. A mio parere questa è la
strada, la via della giustizia. Bisogna rendere giustizia a chi merita
giustizia, e qui molti gridano perché meritano giustizia. Come dice
Giovanni Paolo II e lo ha ripetuto più volte, “non c’è pace senza
giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Se vogliamo soltanto
vendicare i torti ricevuti, si finisce in una spirale di violenza com’è
l’attuale [...].
Non vedo aperture politiche di pace se non in un cambio di mentalità.
Bisogna sperare che questi dialoghi a livello di base portino, a poco a
poco, a una cultura che all’inizio diventi opinione pubblica – visto che i
mass media attualmente non sanno quasi nulla di questa realtà di dialogo,
di incontro, di assistenza, di aiuto – e domani diventi anche fatto
politico. La speranza c’è, la preghiera per la pace è continua. So che la
mia intercessione e la mia preghiera valgono poco, però le metto come
goccia nel fiume immenso della preghiera della Chiesa, che poi è la
preghiera di Cristo intercessore, come dice san Paolo: “Cristo vive sempre
intercedendo per noi”. Ho totale fiducia in questa preghiera perché so che
il Signore la ascolta, magari non con fatti subito clamorosi ma con la
pace che Egli semina nei cuori. E ci sono davvero molti gesti e molte
iniziative di pace, come ho detto. La mia preghiera, inoltre, è aiutata da
questi Luoghi Santi.
Ho cercato, poi, di riprendere i miei studi: prima di diventare
arcivescovo di Milano ero professore di critica testuale all’Istituto
Biblico. Ho ricominciato lo studio degli antichi manoscritti biblici. Ho
già fatto una prima pubblicazione: l’edizione critica del papiro Bodmer
VIII, un papiro del secolo terzo, il più antico documento esistente delle
Lettere di Pietro. Il papa ne ha regalato una copia a tutti i cardinali in
occasione del suo venticinquesimo anniversario di pontificato. Adesso sto
preparando un altro lavoro, che mi occupa molto, ed è l’introduzione
critica al Codice Vaticano Greco 1200, che comprende tutta la Bibbia
greca, il famoso Codice B.
Infine, c’è una mia terza occupazione: il ricevimento di pellegrini. Oggi
non è così semplice [arrivare qui], benché io continui a dire – ed è vero
– che non ci sono rischi reali per i pellegrini. I mass media danno voce
soprattutto agli eventi drammatici e dolorosi, è perciò sempre necessario
un po’ di coraggio per decidere, come dice il salmo, “nel cuore il santo
viaggio”. Naturalmente, per ragioni di tempo, non posso ricevere se non
gruppi legati a Milano, cioé alla mia attività precedente: incontro le
parrocchie, i sacerdoti, i laici. Sono rimasto molto legato alla mia
diocesi: recito ancora il breviario ambrosiano, seguo il calendario
[liturgico] ambrosiano, sono ancora ambrosiano di diritto. Predico, poi,
qualche corso di esercizi. La settimana scorsa, per esempio, ho dettato un
corso di esercizi alle suore carmelitane sul Monte degli Ulivi, nel luogo
detto del “Pater”. La settimana prossima predicherò a Betlemme ai preti di
Milano che ho ordinato nel 1997 e che hanno deciso di venire qui per fare
un corso di esercizi con me.
Cerco di rendermi utile, di vivere una vecchiaia un po’ operosa, malgrado
gli acciacchi dell’età, che si sentono tutti, perché io vado per i 78
anni. A Milano mi pareva di non sentire alcuna fatica, ma avvertivo che
era giusto lasciare dopo aver compiuto i 75 anni. Sono contento di questa
scelta, perché non ce l’avrei fatta a continuare con il ritmo di prima.
Qui, invece, posso pregare, ricordare tutte le persone che ho incontrato,
intercedere per tutti.
12/01/2005 -
L'Espresso -