Quando
non aveva ancora due anni, Rowan Williams prese la meningite e fu sul
punto di morire. I dottori dissero che quel bambino fragile per
sopravvivere avrebbe dovuto trascorrere per quanto possibile una vita
tranquilla. Niente a che vedere col duro lavoro che gli è toccato in
sorte, da quando nel 2002 è stato eletto centoquattresimo arcivescovo di
Canterbury e primate di una Comunione anglicana attraversata come non mai
da dissidi dottrinali e da presagi di declino. Eppure il 54enne gallese,
che 30Giorni ha intervistato durante il convegno su Thomas Merton
organizzato dalla Comunità di Bose dall’8 al 10 ottobre, non ha
l’aria della persona angosciata. Oggi che anche tanti ecclesiastici si
agitano per riaffermare e difendere il peso e lo spazio dei valori
religiosi nella società postmoderna, lui ha ben presente che camminare
con Gesù «comporta il rischio di non avere da dire niente che il
potere possa ascoltare, il rischio di diventare una nullità nello schema
di qualcuno». E cita i primi cristiani, i quali sapevano bene che «appartenere
al Dio di Gesù è altra cosa rispetto ad essere un cittadino, qualcuno
con chiari diritti e uno status pubblicamente riconosciuti».
Lei è diventato
arcivescovo di Canterbury da quasi due anni, e sono stati anni turbolenti
all’interno della Comunione anglicana. Sono noti i suoi studi sul
cristianesimo del IV secolo e sulla crisi ariana. L’hanno aiutata a
valutare la condizione presente del cristianesimo nel mondo?
ROWAN WILLIAMS: Qualche
volta forse abbiamo costruito un’immagine troppo abbellita delle epoche
passate, come se tutto andasse bene nella vita della Chiesa. Invece se si
studia la storia, ti accorgi che a volte per interi decenni la Chiesa era
profondamente divisa. Ma questo non vuol dire che anche in quei periodi
non ci fossero verità da scoprire. Lo studio del IV secolo che ho
condotto per tanti anni mi ha aiutato a vedere che le persone possono
rimanere sante pur in mezzo al vortice degli eventi in tempi tribolati. E
che non puoi pensare di dedurre da che parte sta la verità contando le
teste. Perché in quella crisi sant’Atanasio era rimasto quasi solo a
custodire la vera fede davanti all’arianesimo. In alcune situazioni
occorre aspettare con pazienza. Atanasio era molto vicino alla vita
monastica dei suoi tempi. E
questo per me è un indizio che coloro che affidano la propria vita alla
vocazione monastica hanno spesso la vista più lunga.
Anche
dei primi vescovi in terra britannica lei ha esaltato la virtù della
pazienza…
WILLIAMS: Il vescovo
Restitutus nel 314 aveva preso parte al Concilio di Arles. Negli ultimi
anni doveva essere fiducioso nel futuro della sua Chiesa, perché le cose
parevano andare bene. La persecuzione era finita, l’imperatore era
amico. Se fosse vissuto cento anni dopo, avrebbe visto la fine di quella
iniziale civilizzazione cristiana, quando i pirati barbari travolsero
tutto. Quando arrivò Mellitus, inviato da Gregorio Magno, non sembra che
ci fossero più tracce di presenza cristiana. Dovette rimanere parecchio
tempo in Francia, in attesa di tempi migliori, che permettessero di
ricominciare. Per questo ho detto che i vescovi di Londra hanno sempre
dovuto essere tenaci e pazienti…
A
destra: La cattedrale di Canterbury
|
|
Il nostro appare come
un tempo di prova per il cristianesimo. Eppure sembra un tempo religioso e
spirituale. Come spiega questo paradosso?
WILLIAMS. Uno dei tratti
salienti della nostra cultura è che siamo individualisti e con
un’attitudine consumistica nei confronti delle cose. Anche nella
religione non si cerca quello che è vero, che è reale, ma ciò che mi
offre benessere, che si può usare per sentirsi a posto. Un sentimento
spirituale che tranquillizzi il resto della propria vita. Non un annuncio
che irrompa nella vita come una novità, cambiando le cose. In vaste parti
dell’Occidente, poi, le persone hanno il rigetto verso
l’appartenenza a organizzazioni collettive. Se la Chiesa ha una crisi
della propria membership, i partiti politici stanno anche peggio…
Il
cristianesimo appare come un passato che non riguarda la vita, o
addirittura come un peso. Le Chiese reagiscono cercando di riaffermare il
proprio peso nella società. E moltiplicano gli interventi pubblici. Su
ogni argomento.
WILLIAMS. Quando ascolto
domande come questa, mi sento subito imputato. Dall’arcivescovo tutti si
aspettano che parli in pubblico su tante cose. È una cosa che adesso mi
tocca fare, e non è facile. Quando mi capita di incontrare dei giovani,
si vede bene che quello che può attirarli alla fede non sono certo i
pronunciamenti dei capi della Chiesa. Quando ero vescovo in Galles mi davo
molto da fare per i giovani della diocesi, e per molti anni abbiamo avuto
un eccellente ministero pastorale rivolto a loro, che consisteva
principalmente nell’intrattenerli e farli divertire. Poi è arrivato un
nuovo cappellano, ha organizzato subito un ritiro di preghiera con i
giovani della diocesi per la Settimana santa. E in quell’occasione un
ragazzo che era venuto da agnostico alla fine ha chiesto di essere
battezzato. Da quel semplice fatto ho intuito che vedere gli occhi di
altri che guardano al Signore è la sola cosa che fa prendere sul serio la
Chiesa. Se la Chiesa qualche volta ha cose utili da dire sulla cultura e
la politica beh, si può fare, e va bene. Ma la storia non finisce lì...
Cosa è la Chiesa per
lei?
WILLIAMS: Ho scritto di
recente sulla cristianità degli inizi, e ciò che secondo me descrive la
Chiesa nei primi secoli è che è una comunità che vive seguendo un altro
Re. A pensarci bene, nei tempi moderni diamo molto peso alle convinzioni
teoriche delle persone, a quello che hanno nella loro testa, ma non
pensiamo mai all’appartenenza reale a Cristo, dentro una comunità. La
Chiesa non esiste per decisione mia o di un qualsiasi numero di persone,
ma per l’azione di Dio. Noi, le nostre opinioni, le nostre prospettive,
non dettiamo legge su ciò che la Chiesa è al presente. L’esperienza di
tale assenza di controllo è in sé stessa salutare. Mentre a volte le
Chiese sembrano agitate per questo, per l’incontrollabilità di Gesù
Cristo, per il fatto che Lui non è prigioniero dei nostri pensieri.
Adesso c’è bisogno di questo riconoscimento, più che in altri momenti.
Il riconoscere che siamo nella Chiesa come degli invitati, perché siamo
stati chiamati. Altrimenti la Chiesa sarebbe soltanto una litigiosa società
umana.
L’arcivescovo
durante la liturgia della lavanda dei piedi nella
Cattedrale di Canterbury, 17 aprile 2003 |
Rowan
Williams nelle Grotte Vaticane davanti al plastico
che riproduce la tomba di Pietro, 4 ottobre 2003 |
E
i litigi di certo non mancano.
WILLIAMS: Il fatto è che
la Chiesa non è la comunità di persone che vanno d’accordo con noi e
condividono le stesse idee. Sono persone che non scegliamo noi. Che magari
non ci piacciono. Ma che sono scelte e cambiate da Gesù stesso. Non
accade niente di interessante nella Chiesa se non per opera di Lui, che può
redimere i nostri disastri umani. Che ha promesso di rimanere coi suoi
ogni giorno, fino alla fine del mondo. E ha detto di guardare e chiedere
aiuto ai piccoli, ai poveri, ai bambini.
Mi ha colpito la frase
di un suo discorso, in cui lei ha detto che «l’ortodossia fluisce,
sgorga dalla gratitudine, e non il contrario». Cosa intendeva dire?
WILLIAMS: Il pensiero dei
primi cristiani, anche a livello teologico dottrinale, sorse dal fatto che
loro vedevano di essere condotti da Gesù in una nuova vita. Le prime
parole del cristianesimo sono state quelle usate per rendere gloria a Dio.
La dottrina teologica è sorta riflettendo su questo. Se manca questa
iniziale gratitudine e riconoscenza per il semplice fatto di Gesù, non si
risolvono certo i nostri problemi solo insistendo sulla disciplina.
D’altra parte,
circolano anche teologie per cui l’incarnazione di Cristo garantirebbe a
priori la salvezza a tutto il genere umano e a tutto il mondo, in maniera
meccanica. Concorda con queste tesi?
WILLIAMS. Il disaccordo
che provo nei confronti di alcune correnti della teologia americana della
creazione è sul fatto che tutto è già deciso, non lasciano spazio
neanche alla possibilità che l’uomo possa dire no. Non conosco il cuore
degli altri ma conosco il mio, e so che sono capace di creare disastri. Il
mio professore all’Università mi ripeteva sempre che nessuna teologia
può stare in piedi senza tenere in conto la possibilità del fallimento.
È
noto che lei si appassiona alle vite dei santi. Quali santi le sono più
cari?
WILLIAMS. Amo soprattutto
santa Teresa e san Giovanni della Croce. Ho sempre avuto una predilezione
per la spiritualità carmelitana. Ho letto Teresa a quindici anni. Non
l’ho capita, ma sentivo che mi piaceva. Poi ho letto anche Edith Stein.
Riguardo alle Chiese d’Oriente, mi sono affezionato a san Serafino di
Sarov. Lo scorso anno in Russia ho potuto visitare la sua tomba.
Lei cita spesso anche
sant’Agostino.
WILLIAMS. Agostino ha
creato la disciplina dell’autoanalisi, dell’autocomprensione,
mostrando come siamo modellati dalla nostra memoria. Oggi, nell’era
postmoderna, siamo indotti a passare da sensazione a sensazione, bruciamo
esperienza dopo esperienza, e non c’è più storia. Mentre lui ci fa
vedere che è la storia che fa la persona. Anche nel rapporto con la realtà
civile, Agostino ci ha insegnato che dobbiamo cercare il bene della città
in cui viviamo, del luogo in cui siamo, lavorando per la giustizia, senza
identificare mai il successo di tale società con il regno di Dio.
Coinvolgimento, e allo stesso tempo distacco. Come ho detto prima, noi
siamo di un altro Re. Insomma, a volte dico che Agostino può anche essere
considerato il fondatore della psicoanalisi e della politica moderna…
È nota anche la sua
passione per la liturgia.
WILLIAMS: La liturgia ci
ricorda sempre che andiamo verso il giudizio. Che le nostre vite sono
poste dentro un nuovo contesto, dove noi entriamo come ospiti. Una
liturgia che fosse solo la proiezione delle mie idee sarebbe qualcosa di
effimero. Della liturgia che si celebra alla Comunità di Bose, ad
esempio, mi piace che non è frettolosa, si prende il tempo che serve, è
piena di riferimenti biblici, ed è semplice.
In tutta sincerità,
come giudica il primato petrino?
WILLIAMS: Mi è chiaro
che fin dall’inizio c’è stato uno speciale carisma, un servizio
speciale esercitato dal vescovo di Roma per tutta la Chiesa. Ma dal
momento in cui questo è diventato qualcosa di legale e rigidamente
definito dal punto di vista teologico, come risulta nelle definizioni del
Concilio Vaticano I, mi riesce difficile non avere riserve. Ad esempio,
riguardo all’infallibilità come carisma spirituale individuale. Come
scriveva il tologo anglicano Austin Farrer, l’infallibilità non
dovrebbe essere considerata come una «licenza di stampare fatti». Da
quando questo Papa nell’enciclica Ut unum sint ha invitato a
discutere di questo tema, tutti noi, anglicani, cattolici e altri, abbiamo
una buona occasione per valutare criticamente ciascuno la propria storia.
Noi anglicani sperimentiamo come può essere difficile vivere in una
Chiesa senza un centro chiaro di autorità. Io non voglio essere un papa.
Ma ho presente il problema. So quanto è importante nelle Chiese avere una
vera responsabilità l’uno verso l’altro. Nella Chiesa d’Occidente
questa esigenza di un’autorità centrale storicamente si è
focalizzata nel papato...
Ma
si tratta solo di una costruzione storica? Il ruolo della Chiesa di Roma
non sorge dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo?
WILLIAMS: Quando io e mia
moglie siamo venuti a Roma, scendendo alla tomba di Pietro siamo rimasti
veramente commossi. La testimonianza apostolica di Pietro, riportata in
tutto il Vangelo, si compie lì, nel suo martirio. E quando si parla di
ministero petrino, si parla di questo, io penso che sia questo. Hans Urs
von Balthasar, un teologo a cui sono affezionato, scrisse sul ministero
petrino al tempo di Paolo VI, quando Paolo VI era criticato e attaccato da
tutte le parti. E lui scrisse: ecco, adesso io vedo bene cosa è realmente
il ministero petrino.
Nelle convulsioni del
presente, in Occidente aumentano gli allarmi nei confronti dell’islam,
che starebbe portando un sistematico attacco alla civiltà occidentale e
alle sue radici cristiane. Come giudica queste interpretazioni
dell’attuale momento storico?
WILLIAMS: Uno degli
impegni che mi sono assunto come arcivescovo è stato quello di continuare
il dialogo islamo-cristiano ad alto livello iniziato già dal mio
predecessore. Alcune settimane fa sono andato in Egitto, e all’Università
islamica di Al-Azhar ho parlato sulla dottrina della Trinità. In quel
Paese, ad esempio, c’è una stretta collaborazione tra le nostre comunità
e le comunità islamiche. Io non vedo come prospettiva obbligata quella
dello scontro di civiltà. La civilizzazione cristiana deve qualcosa al
mondo islamico, così come la civiltà islamica deve molto alla cristianità.
Ebrei, cristiani e musulmani hanno una lunga storia comune. Più
riconosciamo questa storia di convivenza, meglio è per il futuro. Non è
neanche vero che tutto il Medio Oriente è islamico. Le antiche Chiese
d’Oriente sono lì dai tempi della predicazione apostolica. Prima della
guerra in Iraq ho fatto interventi pubblici e ho anche parlato
privatamente con membri del nostro governo per segnalare il pericolo che
sarebbe venuto, a causa della guerra, ai cristiani del Medio Oriente, che
finiranno per pagare il risentimento crescente verso il mondo occidentale.
A pagare nel vortice
di violenza che avvolge il mondo sono spesso i bambini. Lei ne ha parlato
spesso…
WILLIAMS: Ritengo che uno
dei peggiori nuovi mali degli ultimi due decenni, propriamente satanico,
è l’attacco ai bambini. Quelli di Beslan, quelli iracheni o egiziani.
Quelli palestinesi e quelli israeliani. O gli innocenti bambini soldato in
Africa. È una connessione difficile da fare, ma anche la scelta
dell’aborto la prendiamo così alla leggera… Non c’è più speranza
e fiducia nel futuro dei bambini, e in queste vicende ciò si vede come in
uno specchio.
di Gianni Valente;
fonte:www.30giorni.it/
Ottobre 2004