Nel
’92 la sua jeep si ribaltò, lasciandolo paralizzato: «volevo morire,
ho imparato a non farmi schiacciare dai ricordi». MILANO - Ambrogio Fogar guarda un soffitto con le nuvole che non si muovono mai. Gli hanno dipinto il cielo in una stanza, sogna la luna e il mare inchiodato in un letto, le gambe sono rigide, come le braccia e la schiena, la faccia si è gonfiata e i suoi occhi ogni tanto chiedono aiuto: se vuole piangere, qualcuno deve asciugargli le lacrime, se legge, non volta mai pagina da solo. Respira con una macchina che ogni sei secondi manda un segnale al suo diaframma, così ha ripreso a parlare e a dare impulsi vocali anche a un computer. «Prima di dormire prego - sussurra - e questo mi aiuta a resistere». Resistere è l’impresa più difficile della sua vita, quella nuova, che dura da 12 anni. Deve resistere alle cure, alla sedentarietà forzata, allo strazio, alle notti insonni, alle rinunce, alle emozioni perdute, al senso di sfiducia che gli fa dire ogni tanto «che cosa ci faccio qui». L’uomo che girava il mondo in barca a vela e voleva raggiungere il Polo Nord con il cane Armaduk, è aggrappato a un filo che a volte sembra invisibile. La sua solitudine non è più quella del navigatore che scruta l’orizzonte a bordo del «Surprise», la mitica barca affondata da un’orca, dei settantaquattro giorni di naufragio con la morte dell’amico Mauro Mancini: del freddo di coperta, che gela la faccia in mezzo all’oceano, il suo corpo non sente più nemmeno i brividi. La solitudine di Fogar è quella di un tetraplegico che dalla testa in giù non segue i comandi del cervello, dipendente per tutto dall’amore e dall’affetto di qualcuno, dalle tecnologie che aiutano a non essere tagliato fuori dal mondo, dai sanitari che devono incoraggiarlo a non lasciarsi andare. Dal settembre del ’92, quando la sua jeep si ribaltò sulla pista del raid Parigi- Mosca-Pechino, nel deserto del Turkmenistan, Fogar è imprigionato in un corpo immobile, deve essere assistito, lavato, vestito, pettinato e imboccato; la lesione al midollo spinale per ora non è una patologia curabile, l’unica terapia è accettarsi, lottare, evitare il peso dei ricordi e la disperazione per qualche abbandono. È dura immaginarsi così, passare dalla normalità alla dipendenza assoluta. Fogar ha imparato a guardarsi dentro, a contenere la sofferenza. Da anni può parlare con uno stimolatore frenico, una specie di pacemaker che attiva con una scossa la sua voce. Nella disperazione, è stato un grande salto di qualità. «All’inizio ho pensato molte volte di morire, ho pregato le mie sorelle di portarmi in Olanda per farla finita. È difficile accettarsi quando non sei più quello di prima: ogni impulso è una frustata, ogni desiderio una ferita, nelle mie condizioni devi chiedere aiuto anche per grattarti il naso». Il giorno dell’incidente Fogar aveva 51 anni: lesione midollare con frattura composta del dente dell’epistrofeo, ricoveri al San Raffaele, in Svizzera, in Francia, a Legnano, al neurologico Besta, bollettini simili, verdetti che annientano. Oggi, a 63 anni, è un miracolo umano, un sopravvissuto che può insegnare la speranza ai duemila sfortunati vittime di lesioni midollari all’anno in Italia, un caso clinico che dimostra come si può convivere con un handicap gravissimo. «È la forza della vita che ti insegna a non mollare mai, anche quando sei sul punto di dire basta - spiega -. Ci sono cose che si scelgono e altre che si subiscono. Nell’oceano ero io a scegliere, e la solitudine diventava una compagnia. In questo letto sono costretto a subire, ma ho imparato a gestire le emozioni e non mi faccio più schiacciare dai ricordi. Non mi arrendo, non voglio perdere...». È il bicchiere mezzo pieno che Fogar vuole vedere nonostante la paralisi, «perché c’è una vita che continua e non posso dire che la mia sia noiosa o monotona». Da uomo che ha vissuto due volte detta memorie, collabora con la vecchia squadra di documentaristi, aiuta la raccolta di fondi per l’associazione mielolesi, fa il testimonial per Greenpeace contro la caccia alle balene, risponde alle lettere degli amici e sogna, sogna «di tornare a correre al campo Giuriati, quello della mia infanzia a Milano», o di ripetere il giro d’Italia su una barca a vela, «l’ho fatto già una volta, sei anni fa, con una sedia a rotelle basculante, ed è stato bellissimo». Racconta di sensazioni nuove, «mi piace quando mi accarezzano con gli occhi», e di come è riuscito a trovare un equilibrio dopo i momenti di depressione, «le mie sorelle, i miei collaboratori, i medici, non mi hanno mai fatto mancare il loro aiuto». «La medicina e la tecnologia oggi possono dare una grossa mano - spiega Dario Caldiroli dell’istituto Besta, che segue Fogar da anni, esperto in riabilitazione respiratoria e home care, l’ospedalizzazione a domicilio - ma se manca la famiglia pochi riescono a farcela. Dopo le cure in ospedale la terapia si sposta a domicilio e qui non ci sono alternative: per questi malati il carico assistenziale è pesantissimo. Per quanto in Lombardia ci sia un buon supporto di assistenza, i parenti devono inventarsi un nuovo ruolo. Ci vuole uno sforzo eccezionale, un grande affetto e tanta umanità per evitare il crollo». Fogar ha metabolizzato l’addio di persone care, come l’ultima compagna, e la depressione dei primi mesi fuori dalla rianimazione, ma, sostiene, non gli è servito il suo coraggio da trapper nel viaggio più lungo della sua vita. «Quando sei così, non hai alternative. Più del coraggio serve la speranza, la fede in Dio, la forza che ti dà una persona amica». Un giorno disse pubblicamente «se potete, non dimenticatemi» e questo slogan potrebbe essere una campagna del ministero della Sanità per i tanti costretti a vivere immobilizzati come lui. «Una lettera, una e mail , una visita, sono l’antidoto più efficace alla voglia di lasciarsi andare», conferma il professor Caldiroli. C’è tanta tristezza in un dramma che cambia un percorso di vita e per Fogar questa è una sorta di nemesi: «Da bambino sfondavo i muri di casa con la fantasia, vedevo l’oceano e in mezzo c’ero io che navigavo». Un grande viaggiatore, avventuroso, spavaldo, guascone e controverso, costretto a restare fermo, immobile in un letto. Se non c’è l’evento, si finisce per dimenticarlo, perchè l’assenza porta a rimuovere una storia, una persona. E i tetraplegici che combattono per recuperare un corpo assente rischiano di diventare fantasmi nella società che non ammette stop. «Aiutateci a non dimenticare, a migliorare l’assistenza e a costruire una speranza per tutti», è l’appello di Fogar. «Io resisto perché spero un giorno di riprendere a camminare, di alzarmi da questo letto con le mie gambe e di guardare il cielo». Dalla scienza arrivano buone notizie. Le cellule staminali danno qualche chance . Si sperimentano per la sclerosi multipla, poi, forse, per le lesioni midollari. Fogar cerca con lo sguardo la complicità della sorella che lo assiste. «Sono pronto a fare da cavia. Bisogna avere fiducia, anche se sono cosciente dei miei limiti». Nella casa di via Crescenzago, a Lambrate, la sorella lo sfiora con una carezza. «La positività di Ambrogio mi dà una grande forza», dice. Fuori è buio e ci sono le stelle. Una porta il suo nome: Ambrofogar Minor Planet 25301. Gliel’hanno dedicata gli astronomi che l’hanno scoperta. È piccola, ma aiuta a sognare ancora un po’. Giangiacomo Schiavi - gschiavi@rcs.it - 20 luglio 2004 Fonte: Corriere della Sera
Tanti lettori del Corriere ci hanno scritto dopo l'intervista ad Ambrogio Fogar. Sono stati colpiti dalle sue parole, dal coraggio e dal messaggio di speranza che l'ex navigatore solitario è riuscito a trasmettere. Il suo dramma, i 12 anni in un lettino con il corpo immobilizzato, il suo essere tetraplegico, sono diventati una seconda vita, dopo quella avventurosa finita con l'incidente in Turkmenistan nel 1992. Fogar ha chiesto di non essere dimenticato e vuole continuare a vivere, come i duemila in Italia costretti alla paralisi dalle lesioni midollari. Ha imparato a gestire i ricordi, combatte per difendere le balene, detta le sue memorie e aiuta l'associazione mielolesi. *** Il libro dettato da Ambrogio Fogar: "Solo la forza di vivere" MONDADORI 1997
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