Chiese unite nel sangue
di Andrea Riccardi

  

I cristiani martiri non sono solo cattolici, ma evangelici, anglicani, ortodossi. L’iniziativa anglicana di porre le figure dei cristiani martiri nelle nicchie dell’abbazia di Westminster sottolinea come il martirio del Novecento sia una realtà profondamente ecumenica. C’è stata una comunione nella sofferenza.

A questo proposito le testimonianze sono numerosissime. Ricordo quella dell’intellettuale rumeno Nicu Steinhardt, di origine ebraica, convertitosi al cristianesimo ortodosso. Battezzato nella durissima prigione di Ceaucescu da un prete ortodosso, egli volle che fossero presenti anche altri due prigionieri, due preti greco-cattolici. Scriveva, nel suo Diario della felicità: «I due preti greco-cattolici assisteranno al battesimo e io dirò il Credo davanti ai preti cattolici sia come omaggio alla loro fede, sia come testimonianza che intendiamo dare vita all’ecumenismo durante il pontificato di Giovanni XXIII. Tutti e tre mi chiedono di considerarmi battezzato nel nome dell’ecumenismo e di promettere di lottare – se un giorno uscirò di prigione – per la causa dell’ecumenismo, sempre. Lo prometto con tutto il cuore».

C’è una moltitudine di martiri di ogni nazione e di ogni confessione. Proviamo a sentire la loro lingua. Parlano russo, come avveniva in quel «regno degli infelici» – così lo definì una deportata – che è stato il lager delle Isole Solovki in Russia. Un detenuto ricorda un’immagine d’amore in quell’inferno di freddo, di maltrattamento, di lavoro senza senso: «Unendosi nello sforzo lavorano insieme un vescovo cattolico ancora giovane, e un vecchietto emaciato e scarno con la barba bianca, un vescovo ortodosso, antico di giorni ma forte di spirito, che spingeva energicamente il carico... Chi di noi avrà un giorno la ventura di far ritorno nel mondo, dovrà testimoniare quello che vediamo noi qui adesso. E ciò che vediamo è la rinascita della fede pura e autentica dei primi cristiani, l’unione delle Chiese nella persona dei vescovi cattolici e ortodossi che partecipano unanimi nell’impresa, un’unione nell’amore e nell’umiltà».

Uno scorcio delle isole Solovki, sede di un famigerato Lager ai tempi del regime sovietico.
Uno scorcio delle isole Solovki, sede di un famigerato Lager
ai tempi del regime sovietico
(foto Eremin).

I testimoni della fede di ogni confessione hanno sofferto insieme: c’è un valore ecumenico della solidarietà nel martirio. Penso che ci sia una eredità comune che i cristiani del secolo XXI possono accogliere. Il testamento dei martiri non è stato aperto: siamo ancora agli inizi della lettura di questo grande documento storico, umano, cristiano, che è il martirio. Questo testamento parla di uomini, di donne – molte donne – che non hanno rinunciato alla loro fede, all’amore, alla giustizia, a un comportamento umano pur di salvare la loro vita. E qui c’è la chiave del martirio del Novecento.

Ricordo la storia di una contadina abruzzese, Anita Santamarroni, di 72 anni: venne arrestata dai tedeschi e fucilata, durante la Seconda guerra mondiale, perché aveva ospitato due aviatori inglesi e aveva dato loro da mangiare. Prima di morire disse semplicemente: «Non li ho aiutati perché erano inglesi, ma perché sono cristiana e anche loro sono cristiani». Analogamente, il pastore abruzzese Michele del Greco, prima della fucilazione per motivi simili a quelli di Anita Santamarroni, disse: «Muoio per aver messo in pratica quello che mi è stato insegnato in chiesa, quando ero bambino: "Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati..."».

Dai nuovi martiri, uomini e donne semplici e deboli, emerge quella che con san Paolo potremmo chiamare la "forza debole", la forza debole del cristianesimo, che è il suo grande segreto. Non si tratta di potenza, non di alleanza con i potenti, ma della forza di un popolo credente che non rinuncia a credere, a vivere in maniera umana, e a vivere l’amore, nemmeno mentre infuria un conflitto, nemmeno davanti alla minaccia della morte.

Franz Jägerstätter, vittima del nazismo.
Franz Jägerstätter, vittima del nazismo.

Franz Jägerstätter, nato in una borgata contadina in Austria, sposato, padre di tre bambine, nel 1943, a 36 anni, viene chiamato alle armi nella Wehrmacht: rifiuta di indossare la divisa perché ritiene inconciliabile la fede cristiana e il nazismo. «Chi può essere soldato di Cristo e contemporaneamente soldato per il nazionalsocialismo?», si chiedeva.

«Oggi», ha scritto in una lettera Jägerstätter, «si vogliono vedere cristiani che possono ancora resistere nei tempi bui, in riflessiva lucidità, nella calma e nella sicurezza, che stanno in perfetta pace e letizia là dove non ci sono né pace né gioia, ma dove dominano astio ed egoismo, che non sono come una canna sbattuta dal vento. Che non stanno a guardare cosa fanno i camerati o gli amici, ma che si chiedono cosa insegnano Cristo e la Chiesa o che cosa dice la propria coscienza».

Scriveva padre Antonio Canduglia, missionario di san Vincenzo de’ Paoli in Cina, ucciso a Ta-ho-ly, nel 1907, durante i torbidi anni che seguirono le rivolte xenofobe e anticristiane della fine del secolo XIX e degli inizi del XX: «La mia vita poco importa: prima di tutto io devo proteggere i miei cristiani. Avete dimenticato che un pastore deve dare la sua vita per le sue pecore? Non siamo degni del martirio; ma quale grazia ci concede Dio di fare in tutto la sua santa volontà!».

Celebrazione in rito armeno.
Celebrazione in rito armeno. La strage degli armeni, per mano
dei turchi nel 1915, è ancora oggi al centro di accesi dibattiti nell’Ue
 (foto Periodici San Paolo/G. Giuliani).

La storia di questo martirio non si potrà scrivere come tanti fioretti. Ci sono vicende bellissime. Ma c’è una storia di massa, di centinaia di migliaia, di milioni di persone, umili, sconosciute, di cui si sono perduti i nomi e i volti. Si pensi ai cristiani armeni e siriaci dell’Impero ottomano, massacrati durante la Prima guerra mondiale. Molti di loro avrebbero potuto salvare la vita se avessero rinunciato alla loro fede. Non l’hanno fatto. Ecco, è una storia di martirio di popolo e anche di martirio ecumenico.

Tante e diverse sono le storie. In Italia, ricordo quella del commissario di polizia Giovanni Palatucci. È significativa come testimonianza di solidarietà cristiana nei confronti degli ebrei. Educato in una famiglia di tradizione cattolica, nel 1937 fu assegnato alla questura di Fiume, dove gli venne affidata la responsabilità dell’ufficio stranieri. Lì cominciò immediatamente a prodigarsi in favore degli ebrei che accorrevano numerosi in città per salvarsi dai nazisti.

Quando la via dell’espatrio non fu più praticabile, iniziò a indirizzare gli ebrei nei pressi di Salerno, mettendoli sotto la protezione dello zio vescovo, monsignor Palatucci. Dopo l’armistizio tra il Governo italiano e gli alleati, nel settembre 1943, quando Fiume venne occupata dalle truppe tedesche sotto il diretto controllo delle SS, Giovanni Palatucci decise di rimanere al suo posto. Procedette alla sistematica distruzione di tutto il materiale riguardante gli ebrei contenuto negli archivi della questura, al fine di vanificare i tentativi delle SS di formare delle liste per le deportazioni. Il 13 settembre 1944 fu arrestato dai nazisti. Condotto nel carcere di Trieste fu condannato a morte; graziato, fu deportato a Dachau, dove morì di stenti il 10 febbraio 1945. In sette anni di permanenza a Fiume, Palatucci era riuscito a mettere in salvo, direttamente o indirettamente – sembra – circa cinquemila persone.

Andrea Riccardi

Fonte: "Jesus", aprile 2004

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