Guatemala, un genocidio dimenticato


di Andrea Necciai

La mattina del 27 aprile 1998, nel cortile della casa parrocchiale di San Sebastian (Città del Guatemala), veniva rinvenuto il cadavere di monsignor Juan Gerardi Conedera, vescovo ausiliare della capitale e titolare della diocesi di Quiché.

Appena due giorni prima, l’alto prelato aveva presentato ufficialmente alla stampa e al mondo intero il testo del rapporto “Guatemala nunca mas”, nel quale era riuscito a documentare oltre 50.000 casi di gravi violazioni dei diritti umani (compresi centinaia di omicidi, torture, sparizioni e stupri) avvenuti durante la guerra civile, terminata nel 1996 con la firma degli accordi di pace tra il governo e i guerriglieri dell’URNG.

Dopo un’estenuante ricerca costata tre anni di lavoro la “Commissione per il Recupero della Memoria Storica”, presieduta dallo stesso Gerardi, aveva attribuito alle forze armate guatemalteche circa l’80% dei delitti commessi in quel paese, riesumando dall’oblio della memoria i fantasmi di un passato un po’ frettolosamente rimosso. Con dovizia di testimoni, date, nomi e cognomi dei responsabili “delle atrocità costate la vita a più di 200 mila persone e la fuga o l’esilio a oltre un milione di guatemaltechi”, il rapporto diocesano di 1400 pagine ebbe il merito di far luce su una delle tragedie più sanguinose della storia dell’umanità.

Nel Guatemala degli anni ‘80-‘90 la tortura è la regola: le vittime sono contadini, sindacalisti, uomini politici, studenti, giuristi, giornalisti, religiosi. La strategia antinsurrezionale dell'esercito “porta alla costituzione delle Pattuglie di Autodifesa Civile (PAC), reclutate tra i contadini (in buona parte forzosamente) con compiti paramilitari e di repressione. Vengono anche fondati i “Poli di Sviluppo” e le “Aldeas Modelo”, nei quali una notevole parte della popolazione contadina viene arbitrariamente concentrata per essere direttamente controllata dalle unità governative.” *

Per contro, la reazione armata della guerriglia marxista a questi abusi cresce d’intensità ma produce come unica conseguenza “un continuo aumento di crimini e violazioni dei diritti umani, nonostante la presenza nel paese di una commissione di controllo delle Nazioni Unite (Minugua).” *

Analogamente al caso di Romero, il vescovo salvadoregno difensore dei diritti del popolo oppresso - ucciso nel 1980 da un cecchino mentre officiava una messa -, la pista delle indagini per risalire agli attentatori di Gerardi porta dritto agli ambienti dell’EMP, il servizio d’informazione dell’esercito guatemalteco.
Per intuire il movente del delitto Gerardi non occorre essere degli Sherlock Holmes. Fin dagli anni più bui della guerra, il vescovo di Quiché si era schierato a fianco delle popolazioni indigene emarginate e massacrate, diventando col tempo un personaggio assai scomodo agli ambienti governativi e padronali guatemaltechi per la sua determinazione nel denunciare la repressione.

Nessuno prima di lui aveva osato sfidare il potere militare, rischiando la vita in più di un’occasione e subendo per due anni la punizione dell’esilio coatto in Costa Rica. Nel 1984 aveva fatto ritorno nel suo paese, e di lì a poco accettò l’incarico affidatogli dalla Conferenza Episcopale come coordinatore dell’Ufficio per i Diritti Umani e rappresentante della Chiesa nella lunga trafila dei negoziati di pace tra governo e guerriglia.

Poi il tragico epilogo, la notte del 26 aprile 1998, quando uno sconosciuto armato di un mattone ha posto fine all’esistenza del principale artefice del processo di recupero della verità storica. Verità tutta, contenuta in quel copioso dossier il cui titolo esprime un severo ammonimento e un impegno ineludibile per il futuro: “nunca mas” - mai più guerre, massacri e sofferenze per il popolo guatemalteco. 

“Guatemala nunca mas”

Il rapporto diocesano si compone di quattro distinte sezioni. Nella prima parte vengono analizzate le testimonianze delle varie forme di violenza perpetrata - in larga misura dall'Esercito - nei confronti delle persone, della famiglia, delle comunità e le forme di resistenza: il terrore come metodo, la violenza contro l'infanzia (la distruzione del seme), la disgregazione e la militarizzazione delle comunità, l'esperienza dei desplazados, la violenza contro la religione e la cultura maya, la violenza sessuale sulle donne individuale e di massa.

Nella seconda parte si prendono in considerazione i meccanismi dell'orrore e la relativa pratica: la struttura di intelligence, le strategie di controllo, le aldeas modelo e i polos de desarrollo, la militarizzazione della vita quotidiana, l'educazione alla violenza, i massacri, le sparizioni e il reclutamento forzato, la tortura, le carceri clandestine. La terza parte analizza invece il contesto storico-politico con riferimenti appropriati alla nascita e allo sviluppo delle forze controinsurrezionali, nonché alla strategia della guerriglia. Infine la quarta e ultima sezione che, con l’ausilio di tabelle e sintesi, riassume i dati statistici relativi alle vittime del conflitto.

Quale giustizia?

Sotto la presidenza di Alfonso Portillo (2000-2004) - esponente del Fronte Repubblicano Guatemalteco, la forza politica ispiratrice ed artefice della repressione - il processo di giustizia e verità storica è giunto ad un punto di stallo. Le inchieste giudiziarie a carico dei pochi responsabili finora incriminati procedono in modo lento e farraginoso, ostacolate da vari tentativi di insabbiamento e depistaggio da parte di chi, negli ambienti politico-militari, ha tutto l’interesse ad archiviare rapidamente la pratica.

Nello svolgimento dell’istruttoria i giudici designati sono pertanto costretti a muoversi in un campo minato, quando non sono oggetto di minacce o intimidazioni. E’ questo il caso dei procuratori Galindo e Zeissig, titolari dal 1999 dell’inchiesta sull’omicidio Gerardi. I due, pur riuscendo ad ottenere la condanna a 30 anni del generale in pensione Estrada e di altri due ufficiali dell’esercito (sentenza che deve essere ancora confermata - o meno - in secondo grado), sono stati indotti uno dopo l’altro ad abbandonare il caso per le ripetute minacce di morte contro di loro e all’indirizzo dei loro familiari.

Una sorte ben peggiore è invece toccata al sacerdote José Maria Furlan, considerato l’erede morale di Gerardi per il suo impegno nella difesa dei diritti civili, assassinato a colpi d’arma da fuoco nella zona 5 di Città del Guatemala. Negli ultimi mesi della presidenza Portillo, il reverendo “aveva duramente criticato il governo per aver ostacolato il chiarimento delle violazioni dei diritti umani commesse nel passato.” *

Note:
* “La lunga ombra dell’impunità”, di Stefano Guerra.

Fonte: www.resistenze.org ; 05/11/2004

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