L'ultima messa di padre Ragheed, martire
della Chiesa caldea
L'hanno ucciso a Mosul,
assieme a tre suoi suddiaconi. In un Iraq martoriato, era uomo e
cristiano di fede limpida e coraggiosa.
Ecco un suo
ritratto, scritto da chi lo conosceva bene |
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ROMA, 5 giugno 2007 – L'hanno ucciso la
domenica dopo Pentecoste dopo che aveva celebrato messa nella chiesa della
sua parrocchia dedicata allo Spirito Santo, a Mosul.
Hanno ucciso padre Ragheed Ganni, sacerdote cattolico caldeo, assieme ai
tre suddiaconi che erano con lui, Basman Yousef Daud, Wahid Hanna Isho,
Gassan Isam Bidawed. Gli assalitori hanno allontanato la moglie di quest'ultimo
e hanno abbattuto i quattro a sangue freddo. Poi hanno collocato attorno
ai loro corpi delle auto cariche d'esplosivo perché nessuno osasse
avvicinarsi. Solo a tarda sera la polizia di Mosul è riuscita a
disinnescare gli ordigni e a raccogliere i corpi.
La Chiesa caldea li ha subito pianti come martiri. Da Roma Benedetto XVI
ha pregato. Padre Ragheed era uno dei testimoni di vita cristiana più
limpidi e coraggiosi, in un paese dei più martoriati.
Era nato a Mosul 35 anni fa. Laureato in ingegneria all’università locale
nel 1993, dal 1996 al 2003 ha studiato teologia a Roma all’Angelicum,
l'Università Pontificia San Tommaso d'Aquino, conseguendo la licenza in
teologia ecumenica. Oltre all'arabo, parlava correntemente italiano,
francese e inglese. Era corrispondente dell'agenzia internazionale "Asia
News", del Pontificio Istituto Missioni Estere.
Il giorno dopo il suo martirio "Asia News" ha pubblicato di lui questo
ritratto:
"L’Eucaristia ci ridona la vita
che i terroristi cercano di toglierci"
“Senza domenica, senza l’Eucaristia i
cristiani in Iraq non possono vivere”: padre Ragheed raccontava così la
speranza della sua comunità abituata ogni giorno a vedere in faccia la
morte, quella stessa morte che ieri pomeriggio ha affrontato lui, di
ritorno dalla messa.
Dopo aver nutrito i suoi fedeli con il corpo e il sangue di Cristo, ha
donato anche il proprio sangue, la sua vita per l’unità dell’Iraq e per il
futuro della sua Chiesa.
Con piena consapevolezza questo giovane sacerdote aveva scelto di rimanere
a fianco dei suoi fedeli, nella sua parrocchia dedicata allo Spirito
Santo, a Mosul, giudicata la città più pericolosa dell’Iraq, dopo Baghdad.
Il motivo è semplice: senza di lui, senza il pastore, il gregge si sarebbe
smarrito. Nella barbarie dei kamikaze e delle bombe almeno una cosa era
certa e dava la forza di resistere: “Cristo – diceva Ragheed – con il suo
amore senza fine sfida il male, ci tiene uniti, e attraverso l’Eucaristia
ci ridona la vita che i terroristi cercano di toglierci”.
È morto ieri, massacrato da una violenza cieca. Ucciso di ritorno dalla
chiesa, dove la gente, anche se sempre meno, sempre più disperata e
impaurita, continuava però a riunirsi come poteva.
“I giovani – raccontava Ragheed alcuni giorni fa – organizzano la
sorveglianza dopo i diversi attentati già subiti dalla parrocchia, i
rapimenti e le minacce ininterrotte ai religiosi. I sacerdoti dicono messa
tra le rovine causate dalle bombe. Le mamme, preoccupate, vedono i figli
sfidare i pericoli e andare al catechismo con entusiasmo. I vecchi vengono
ad affidare a Dio le famiglie in fuga dall'Iraq, il paese che loro invece
non vogliono lasciare, saldamente radicati nelle case costruite con il
sudore di anni. Impensabile abbandonarle”.
Ragheed era come loro, come un padre forte che vuole proteggere i suoi
figli: “Quello di non disperare è un nostro dovere. Dio ascolterà le
nostre suppliche per la pace in Iraq”.
Nel 2003 dopo gli studi a Roma decise di tornare nel suo paese, “perché lì
è il mio posto”. Tornò anche per partecipare alla ricostruzione della sua
patria, alla ricostruzione di una “società libera”. Parlava dell’Iraq
pieno di speranza, con il suo sorriso accattivante: “È caduto Saddam,
abbiamo eletto un governo, abbiamo votato una Costituzione!”. Organizzava
corsi di teologia per i laici a Mosul; lavorava con i giovani; consolava
le famiglie disagiate. In questo ultimo mese stava operando per far curare
a Roma un bambino con gravi problemi alla vista.
La sua è la testimonianza di una fede vissuta con entusiasmo. Obiettivo di
ripetute minacce e attentati fin dal 2004, ha visto soffrire parenti e
scomparire amici, eppure ha continuato fino all’ultimo a ricordare che
anche quel dolore, quella carneficina, quell’anarchia della violenza,
aveva un senso: andava offerta.
Dopo un attacco alla sua parrocchia, la scorsa domenica delle Palme, 1°
aprile, diceva: “Ci siamo sentiti simili a Gesù quando entra a
Gerusalemme, sapendo che la conseguenza del Suo amore per gli uomini sarà
la Croce. Così noi, mentre i proiettili trafiggevano i vetri della chiesa,
abbiamo offerto la nostra sofferenza come segno d’amore a Gesù”.
Raccontava ancora poche settimane fa: “Attendiamo ogni giorno l’attacco
decisivo ma non smetteremo di celebrare messa. Lo faremo anche sotto
terra, dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono incoraggiato
dalla forza dei miei parrocchiani. Si tratta di guerra, guerra vera, ma
speriamo di portare questa Croce fino alla fine con l’aiuto della Grazia
divina”.
E tra le difficoltà quotidiane lui stesso si stupiva di riuscire così a
comprendere in modo più profondo “il grande valore della domenica, giorno
dell'incontro con Gesù Risorto, giorno dell'unità e dell'amore fra di noi,
del sostegno e dell'aiuto”.
Poi le autobombe si sono moltiplicate; i rapimenti di sacerdoti a Baghdad
e Mosul si sono fatti sempre più frequenti; i sunniti hanno iniziato a
chiedere una tassa ai cristiani che vogliono rimanere nelle loro case,
pena la loro confisca da parte dei miliziani. Continua a mancare
elettricità, acqua, la comunicazione telefonica è difficile. Ragheed
comincia ad essere stanco, il suo entusiasmo si indebolisce. Fino a che,
nella sua ultima mail ad "AsiaNews", il 28 maggio scorso, ammette:
“Stiamo
per crollare”. E racconta dell’ultima bomba caduta nella chiesa del Santo
Spirito, proprio dopo le celebrazioni del giorno di Pentecoste, il 27
maggio; della “guerra” scoppiata una settimana prima, con 7 autobombe e 10
ordigni in poche ore; del coprifuoco che per tre giorni “ci ha tenuti
imprigionati nelle nostre case”, senza poter celebrare la festa
dell’Ascensione, il 20 maggio.
Si chiedeva quale sentiero avesse imboccato il suo paese: “In un Iraq
settario e confessionale, che posto sarà assegnato ai cristiani? Non
abbiamo sostegno, nessun gruppo che si batta per la nostra causa, siamo
soli in questo disastro. L’Iraq è già diviso e non sarà mai più lo stesso.
Qual è il futuro della nostra Chiesa?”.
Ma poi a confermare la forza della sua fede, provata ma salda: “Posso
sbagliarmi, ma una cosa, una sola cosa, ho la certezza che sia vera,
sempre: che lo Spirito Santo continuerà ad illuminare alcune persone
perché lavorino per il bene dell’umanità, in questo mondo così pieno di
male”.
Caro Ragheed, con il cuore che grida di dolore, tu ci lasci questa tua
speranza e certezza. Colpendo te hanno voluto annientare la speranza di
tutti i cristiani in Iraq. Invece, con il tuo martirio, tu nutri e doni
nuova vita alla tua comunità, alla Chiesa irachena e a quella universale.
Grazie, Ragheed!
Sandro Magister
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