I pastori nel mirino
di Andrea Riccardi
  

Bisogna tenere presente che, nel secolo XX, tutti i mondi religiosi sono stati toccati dalla violenza a tutti i livelli. Il caso dell’attentato al Papa è emblematico di questo. Sono colpiti anche cristiani rappresentativi, che l’autorità della loro funzione sembrava proteggere dalla violenza. I vescovi tornano a morire nel Novecento, come nei primi secoli della storia cristiana. Tra gli ortodossi russi, si calcola che siano stati assassinati circa trecento vescovi. Altri primati di Chiese sono stati colpiti (non solo cattolici), tra cui il patriarca etiope ucciso dal regime di Mengistu, il catholicos armeno ucciso alle Solovki, l’arcivescovo anglicano dell’Uganda assassinato da Idi Amin.

In Africa tanti vescovi sono stati uccisi: dal presule italiano colpito vicino alla sua cattedrale di Mogadiscio, in Somalia, ai vescovi ruandesi, morti nelle guerre etniche, sino al cardinale del Congo Brazzaville, assassinato dopo un colpo di Stato. Con questi vescovi anche tanti semplici cattolici africani hanno conosciuto la morte, come quei giovani seminaristi burundesi, a cui nel 1996 i guerriglieri hutu chiedono di distinguersi tra hutu e tutsi per assassinare questi ultimi; ma rifiutano e conoscono la morte tutti assieme. La storia del cristianesimo in Africa è contrassegnata dalle vicende del martirio, a cominciare dalla storia missionaria sino alle guerre etniche che non si sono concluse, passando per la stagione della decolonizzazione. Ancora oggi i missionari, specie in Africa, non sono protetti dallo statuto di stranieri. Anzi, nella situazione di incertezza di non pochi Paesi africani, i missionari rischiano la loro vita.


Il Papa prega sulla tomba dei martiri ugandesi (1993)

I capi delle Chiese tornano a morire. Come gli umili fedeli. Perché? Questa è una domanda a cui lo storico non si può sottrarre, perché quando si parla di testimonianza cristiana fino all’effusione del sangue, non si può guardare solo ai martiri ma bisogna considerare anche coloro che li martirizzano e le loro motivazioni. In questa "coppia" – l’assassino e il martire – si coglie forse il dato ultimo e illuminante per l’interpretazione storica e per la comprensione spirituale del martirio: spesso, in queste vicende si è creato un rapporto per cui il martire è diventato un "non uomo", che può essere ucciso. E c’è un motivo. Le circostanze della morte possono essere casuali, il gesto assassino può essere indirizzato a caso, non per odio personale, ma c’è spesso una radice comune per tanta violenza contro i cristiani. Non si tratta di un unico disegno distruttivo, ma certo va colta la radice comune: l’eliminazione del cristianesimo come riserva di umanità, come riserva di fede, come spazio di libertà. Questo avveniva nella Germania nazista, nella Russia sovietica, in Africa e altrove.

Padre Cesare Mencattini (missionario del Pime in Cina), poco prima di essere ucciso, nel 1941, aveva scritto al fratello: «È bello il prete isolato in mezzo a continui pericoli, unico conforto di tanti tribolati, solo e inerme fra tanti armati, amico di tutti fra tanti nemici!». La presenza pacifica di tanti missionari, operosa e sollecita verso i deboli, in Cina come altrove, diventava facile bersaglio in tempi di violenza e di conflitto. Ma, in un certo senso, si è voluto colpire proprio l’«amico di tutti», colui che viveva senza nemici.


Il quartiere sciita di Beirut, bombardato durante la guerra del Libano (1982-1983).

Quando, il 26 settembre 1999, il contingente dell’Onu comincia a schierarsi a Timor Est, per porre fine ai disordini sanguinosi sull’isola, avvenne un nuovo massacro: quello di due missionarie canossiane, suor Erminia Cazzaniga e suor Celeste de Carvalho Pinto, che portavano viveri ai rifugiati nascosti sulle colline. Con loro sono uccisi un sacerdote, due seminaristi, uno studente in teologia e l’autista che collaboravano all’operazione.

Suor Erminia aveva 69 anni e si trovava da 35 a Timor Est. Era stata invitata dai superiori a lasciare la missione allo scoppio dei disordini: «Non vi preoccupate per me», aveva detto, «io sono vecchia: posso anche morire senza paura». Così aveva scritto nella sua ultima lettera al parroco del paese in provincia di Lecco da cui proveniva: «Siamo in piena guerra. Una guerra subdola che tiene la gente sempre nella paura e nell’insicurezza. È cominciato il vandalismo diffuso, gruppi formati e appoggiati dai militari che infestano e distruggono il Paese, uccidendo, saccheggiando e bruciando... Quante persone sono rimaste senza casa, e quanti bambini senza genitori. La nostra missione oggi è non solo di aiutare, ma come dice san Paolo, di piangere con chi piange, condividere con chi è nel bisogno, e dare tanta speranza e fiducia in Dio Padre che non abbandona i suoi figli... E lei, caro parroco, benedica la sua pecorella in mezzo ai lupi rapaci».


Padre Girotti, deportato a Dachau.

Padre Giuseppe Girotti, un biblista domenicano italiano, deportato a Dachau – dove sarebbe morto poco dopo – perché aveva nascosto alcuni ebrei, sottraendoli alla caccia dei nazisti, aveva predicato così nel segreto della baracca del campo: «La Chiesa fu, è e sempre sarà l’unico rifugio del senso di umanità, di amore e di misericordia; rifugio della verità, dei princìpi della retta ragione, della civiltà e della cultura...». Questo rifugio, questa arca di umanità, di amore e di verità, è stata tante volte attaccata nel corso del secolo passato, proprio nella vita dei suoi fedeli.

Tra i libanesi cristiani ci sono stati parecchi uccisi, nei lunghi anni della guerra civile, esplicitamente per la loro fede. Qualcuno anche mentre era impegnato in azioni di soccorso, spesso senza guardare alla religione e all’appartenenza di chi veniva aiutato. Nel dicembre 1984, un seminarista, Ghasibé Kayrouz, viene ucciso mentre rientra da un ritiro al suo villaggio di Nabaa, nella piana della Bekaa, dove musulmani e cristiani vivevano insieme. Altri tre amici del seminarista, che avevano partecipato con lui a un ritiro, sono assassinati. Il ragazzo si era sentito minacciato e, non molto prima della sua morte, aveva scritto un testamento che resta illuminante per la testimonianza di amore, anche verso i musulmani: «Ho solo una domanda da farvi: perdonate a quelli che mi hanno ucciso. Fatelo di tutto cuore e domandate con me che il mio sangue, anche se è il sangue di un peccatore, sia di riscatto per il peccato del Libano, un’ostia mischiata al sangue di quelle vittime cadute da tutti i lati e da tutte le religioni, e un prezzo per la pace e l’amore e l’intesa che si sono persi per questa patria e per il mondo intero. Insegnate alla gente l’amore dalla mia morte e Dio vi consolerà, provvederà ai vostri bisogni e vi aiuterà in questa vita. Non abbiate paura... Pregate, pregate, pregate, e amate i vostri nemici».


Memoriale della Shoah a Bucarest

Queste parole richiamano la testimonianza dei martiri d’Algeria. La vita dei monaci trappisti del monastero di Notre Dame de l’Atlas era fortemente connessa al dialogo con il mondo musulmano. Si trattava di una comunità impegnata con grande vigore a tener viva la coabitazione con i musulmani. Il monastero era in una zona infestata dagli scontri. I monaci avevano rifiutato la protezione dell’esercito. Avevano evitato anche di collaborare con gli armati del Gia, anche se fratel Luc, malgrado fosse ottantenne, non esitava a prestare cure mediche a tutti. I monaci si erano interrogati se restare nel monastero in una situazione di pericolo. Fratel Paul Favre Miville, rientrato al monastero poche ore prima dell’ultima "visita" degli armati del Gia, aveva scritto: «Fin dove spingersi, per salvare la propria pelle, senza correre il rischio di perdere la vita. Uno solo conosce il giorno e l’ora della nostra liberazione in Lui». È la problematica del martirio, che non è rischio avventuroso, ma la scelta faticosa di non lasciare il proprio servizio.

Le "visite" del Gia avevano reso la comunità consapevole del pericolo, che però insisteva sulla qualità di monaci considerati nella tradizione islamica come personalità religiose inoffensive. Durante la detenzione – appare in controluce dalla documentazione prodotta dal Gia – frère Christian non ha cessato di lottare per spiegare la particolarità della loro posizione con l’emiro del Gia. Nella prospettiva che potesse avvenire qualcosa di tragico, frère Christian aveva lasciato un testamento: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di esser vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese...». Le sue ultime parole sono di perdono, come si vede nel testamento di frère Christian: «E anche [per] te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio prevedere questo "grazie" e questo "addio". E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune. Amen! Insciallah».

I sette monaci di Notre Dame de l’Atlas furono sequestrati il 27 marzo 1996 durante la notte. Il 21 maggio furono ritrovati i loro corpi decapitati.

Andrea Riccardi

Fonte: "Jesus", aprile 2004

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