I pastori nel mirino Bisogna tenere presente che, nel secolo XX, tutti i mondi religiosi
sono stati toccati dalla violenza a tutti i livelli. Il caso
dell’attentato al Papa è emblematico di questo. Sono colpiti anche
cristiani rappresentativi, che l’autorità della loro funzione sembrava
proteggere dalla violenza. I vescovi tornano a morire nel Novecento, come
nei primi secoli della storia cristiana. Tra gli ortodossi russi, si
calcola che siano stati assassinati circa trecento vescovi. Altri primati
di Chiese sono stati colpiti (non solo cattolici), tra cui il patriarca
etiope ucciso dal regime di Mengistu, il catholicos armeno ucciso alle
Solovki, l’arcivescovo anglicano dell’Uganda assassinato da Idi Amin. In Africa tanti vescovi sono stati uccisi: dal presule italiano colpito
vicino alla sua cattedrale di Mogadiscio, in Somalia, ai vescovi ruandesi,
morti nelle guerre etniche, sino al cardinale del Congo Brazzaville,
assassinato dopo un colpo di Stato. Con questi vescovi anche tanti
semplici cattolici africani hanno conosciuto la morte, come quei giovani
seminaristi burundesi, a cui nel 1996 i guerriglieri hutu chiedono di
distinguersi tra hutu e tutsi per assassinare questi ultimi; ma rifiutano
e conoscono la morte tutti assieme. La storia del cristianesimo in Africa
è contrassegnata dalle vicende del martirio, a cominciare dalla storia
missionaria sino alle guerre etniche che non si sono concluse, passando
per la stagione della decolonizzazione. Ancora oggi i missionari, specie
in Africa, non sono protetti dallo statuto di stranieri. Anzi, nella
situazione di incertezza di non pochi Paesi africani, i missionari
rischiano la loro vita. I capi delle Chiese tornano a morire. Come gli umili fedeli. Perché?
Questa è una domanda a cui lo storico non si può sottrarre, perché
quando si parla di testimonianza cristiana fino all’effusione del
sangue, non si può guardare solo ai martiri ma bisogna considerare anche
coloro che li martirizzano e le loro motivazioni. In questa
"coppia" – l’assassino e il martire – si coglie forse il
dato ultimo e illuminante per l’interpretazione storica e per la
comprensione spirituale del martirio: spesso, in queste vicende si è
creato un rapporto per cui il martire è diventato un "non
uomo", che può essere ucciso. E c’è un motivo. Le circostanze
della morte possono essere casuali, il gesto assassino può essere
indirizzato a caso, non per odio personale, ma c’è spesso una radice
comune per tanta violenza contro i cristiani. Non si tratta di un unico
disegno distruttivo, ma certo va colta la radice comune: l’eliminazione
del cristianesimo come riserva di umanità, come riserva di fede, come
spazio di libertà. Questo avveniva nella Germania nazista, nella Russia
sovietica, in Africa e altrove. Padre Cesare Mencattini (missionario del Pime in Cina), poco prima di
essere ucciso, nel 1941, aveva scritto al fratello: «È bello il prete
isolato in mezzo a continui pericoli, unico conforto di tanti tribolati,
solo e inerme fra tanti armati, amico di tutti fra tanti nemici!». La
presenza pacifica di tanti missionari, operosa e sollecita verso i deboli,
in Cina come altrove, diventava facile bersaglio in tempi di violenza e di
conflitto. Ma, in un certo senso, si è voluto colpire proprio l’«amico
di tutti», colui che viveva senza nemici. Quando, il 26 settembre 1999, il contingente dell’Onu comincia a
schierarsi a Timor Est, per porre fine ai disordini sanguinosi
sull’isola, avvenne un nuovo massacro: quello di due missionarie
canossiane, suor Erminia Cazzaniga e suor Celeste de Carvalho Pinto, che
portavano viveri ai rifugiati nascosti sulle colline. Con loro sono uccisi
un sacerdote, due seminaristi, uno studente in teologia e l’autista che
collaboravano all’operazione. Suor Erminia aveva 69 anni e si trovava da 35 a Timor Est. Era stata
invitata dai superiori a lasciare la missione allo scoppio dei disordini:
«Non vi preoccupate per me», aveva detto, «io sono vecchia: posso anche
morire senza paura». Così aveva scritto nella sua ultima lettera al
parroco del paese in provincia di Lecco da cui proveniva: «Siamo in piena
guerra. Una guerra subdola che tiene la gente sempre nella paura e
nell’insicurezza. È cominciato il vandalismo diffuso, gruppi formati e
appoggiati dai militari che infestano e distruggono il Paese, uccidendo,
saccheggiando e bruciando... Quante persone sono rimaste senza casa, e
quanti bambini senza genitori. La nostra missione oggi è non solo di
aiutare, ma come dice san Paolo, di piangere con chi piange, condividere
con chi è nel bisogno, e dare tanta speranza e fiducia in Dio Padre che
non abbandona i suoi figli... E lei, caro parroco, benedica la sua
pecorella in mezzo ai lupi rapaci». Padre Giuseppe Girotti, un biblista domenicano italiano, deportato a
Dachau – dove sarebbe morto poco dopo – perché aveva nascosto alcuni
ebrei, sottraendoli alla caccia dei nazisti, aveva predicato così nel
segreto della baracca del campo: «La Chiesa fu, è e sempre sarà
l’unico rifugio del senso di umanità, di amore e di misericordia;
rifugio della verità, dei princìpi della retta ragione, della civiltà e
della cultura...». Questo rifugio, questa arca di umanità, di amore e di
verità, è stata tante volte attaccata nel corso del secolo passato,
proprio nella vita dei suoi fedeli. Tra i libanesi cristiani ci sono stati parecchi uccisi, nei lunghi anni
della guerra civile, esplicitamente per la loro fede. Qualcuno anche
mentre era impegnato in azioni di soccorso, spesso senza guardare alla
religione e all’appartenenza di chi veniva aiutato. Nel dicembre 1984,
un seminarista, Ghasibé Kayrouz, viene ucciso mentre rientra da un ritiro
al suo villaggio di Nabaa, nella piana della Bekaa, dove musulmani e
cristiani vivevano insieme. Altri tre amici del seminarista, che avevano
partecipato con lui a un ritiro, sono assassinati. Il ragazzo si era
sentito minacciato e, non molto prima della sua morte, aveva scritto un
testamento che resta illuminante per la testimonianza di amore, anche
verso i musulmani: «Ho solo una domanda da farvi: perdonate a quelli che
mi hanno ucciso. Fatelo di tutto cuore e domandate con me che il mio
sangue, anche se è il sangue di un peccatore, sia di riscatto per il
peccato del Libano, un’ostia mischiata al sangue di quelle vittime
cadute da tutti i lati e da tutte le religioni, e un prezzo per la pace e
l’amore e l’intesa che si sono persi per questa patria e per il mondo
intero. Insegnate alla gente l’amore dalla mia morte e Dio vi consolerà,
provvederà ai vostri bisogni e vi aiuterà in questa vita. Non abbiate
paura... Pregate, pregate, pregate, e amate i vostri nemici». Queste parole richiamano la testimonianza dei martiri d’Algeria. La
vita dei monaci trappisti del monastero di Notre Dame de l’Atlas era
fortemente connessa al dialogo con il mondo musulmano. Si trattava di una
comunità impegnata con grande vigore a tener viva la coabitazione con i
musulmani. Il monastero era in una zona infestata dagli scontri. I monaci
avevano rifiutato la protezione dell’esercito. Avevano evitato anche di
collaborare con gli armati del Gia, anche se fratel Luc, malgrado fosse
ottantenne, non esitava a prestare cure mediche a tutti. I monaci si erano
interrogati se restare nel monastero in una situazione di pericolo. Fratel
Paul Favre Miville, rientrato al monastero poche ore prima dell’ultima
"visita" degli armati del Gia, aveva scritto: «Fin dove
spingersi, per salvare la propria pelle, senza correre il rischio di
perdere la vita. Uno solo conosce il giorno e l’ora della nostra
liberazione in Lui». È la problematica del martirio, che non è rischio
avventuroso, ma la scelta faticosa di non lasciare il proprio servizio. Le "visite" del Gia avevano reso la comunità consapevole del
pericolo, che però insisteva sulla qualità di monaci considerati nella
tradizione islamica come personalità religiose inoffensive. Durante la
detenzione – appare in controluce dalla documentazione prodotta dal Gia
– frère Christian non ha cessato di lottare per spiegare la
particolarità della loro posizione con l’emiro del Gia. Nella
prospettiva che potesse avvenire qualcosa di tragico, frère Christian
aveva lasciato un testamento: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe
essere anche oggi) di esser vittima del terrorismo che sembra voler
coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe
che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che
la mia vita era donata a Dio e a quel Paese...». Le sue ultime parole
sono di perdono, come si vede nel testamento di frère Christian:
«E anche [per] te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quel che
facevi. Sì, anche per te voglio prevedere questo "grazie" e
questo "addio". E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati,
in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune. Amen! Insciallah». I sette monaci di Notre Dame de l’Atlas furono sequestrati il 27
marzo 1996 durante la notte. Il 21 maggio furono ritrovati i loro corpi
decapitati. Andrea Riccardi Fonte: "Jesus", aprile 2004 |