Dal capitolo XIV dell'opera "Lassù sui monti...",

di padre Pietro Lavini

(Preghiera e lavoro)

 I mali del consumismo

(...) Con i tempi mutati e fieri dei meravigliosi progressi della scienza e della tecnica che hanno trasformato le nostre condizioni di vita; in una società piena di esigenze, di comodità e di complessi, che ha bisogno anche delle cose inutili, non riusciamo neppure ad immaginare che nel passato ci sia stata della gente che per vivere si sia accontentata del puro necessario.

Credo che uno dei mali causati dal consumismo sia proprio quello di avere distrutto nella nostra coscienza il senso dell'austerità e della frugalità che ci insegnano ad accontentarci di ciò che ogni giorno la vita ci offre. E così oggi l'austerità di vita, e la frugalità, da virtù che erano, sono diventate vizio, perché contrastano con la civiltà del consumo; mentre la prodigalità o addirittura lo spreco, sono diventate virtù, perché servono al sistema.

Ma se è vero che l'uomo oggi abbia guadagnato in comodità, in divertimenti, in soddisfazioni e piaceri, è altrettanto vero che ha dovuto sacrificare molti di quei valori che maggiormente lo attraggono: la felicità, la gioia, la serenità, la tranquillità, l'amicizia...

E' vero che oggi l'uomo ha guadagnato in benessere ma è altrettanto vero che, per la legge della compensazione, ha perduto in serenità. Chi ha poco, facilmente si accontenta di quello che ha, e vive sereno; chi, al contrario ha troppo, difficilmente si accontenta di quello che ha, perché vorrebbe avere sempre di più e a qualsiasi costo.

Per i veri valori non c'è più spazio; rimangono soltanto quelli falsi. E così la sua vita si trascina in una continua agitazione a tutto discapito della serenità.

Anche il lavoro oggi non ha più la sua etica: non si lavora, ma si va soltanto a lavorare come gli antichi schiavi che venivano impiegati nella costruzione delle grandi piramidi. L'uomo è considerato come un semplice fattore della produzione, cosa tra le cose. Non è più persona ma soltanto unità lavorativa e produttiva; ridotto quindi ad una quantità e segnato addirittura da un numero, come un ergastolano. Il lavoro è senza gioia: solo peso e maledizione. Nel passato il lavoro era sì duro, impegnava l'uomo in una lotta, spinta spesso fino ai limiti di ogni possibilità umana, ma in compenso era libero, contrassegnato da un clima di serenità, di pace, di gioia.

Sul volto di quella povera gente che ogni giorno chiedeva umilmente alla terra soltanto il necessario per vivere per sé e per la propria famiglia si poteva facilmente intravedere tanta serenità che scaturiva da una vera ricchezza interiore; dalla gioia di vivere e, soprattutto, da una grande fede ed un grande amore per la famiglia. La si poteva avvertire, in modo particolare sul far della sera quando le prime ombre scendevano ad avvolgere nel suo grigiore uomini e cose; ed il suono della campana ritornava a rompere il silenzio ed invitava tutti ad incrociare le dita ed a ringraziare il Signore per la giornata trascorsa. In quel magico momento in cui l'uomo sente più vivi e prepotenti quei sentimenti di amore e di affetto verso i propri cari, ognuno raccoglieva in fretta i suoi arnesi da lavoro e dopo aver baciato quella terra bagnata dal sudore della propria fronte, riprendeva la via del ritorno, stanco si, ma con tanta gioia e serenità.

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