La sua famiglia,
già potente sotto i Romani, lo rimane anche sotto i Visigoti, e
gli prepara una carriera adeguata. Ma Ildefonso scappa di casa,
rifugiandosi nel monastero dei santi Cosma e Damiano, vicino a
Toledo. Non ha in mente la carriera. Si fa monaco, arriva al
diaconato e qui si ferma. Gli va bene così. Ma i confratelli lo
eleggono ugualmente abate nella loro comunità, perché ha tutto:
pietà, cultura, energia, un parlare attraente. Ed è anche uno
scrittore di grande efficacia.
Ma sui cinquant’anni deve lasciare il monastero: è morto
Eugenio II, il vescovo di Toledo, e al suo posto si vuole lui,
Ildefonso. Per convincerlo si muove il re visigoto in persona,
Recesvinto. Così, nel 657, eccolo vescovo di quella che al tempo
è la capitale del regno. Ora non ha più molto tempo da dedicare
ai libri, impegnato com’è a scrivere tante lettere, e non
proprio allegre. Abbiamo di lui pagine angosciate sugli scandali
ad opera di certi cristiani influenti e falsi, sui conflitti duri
con il re, che pure lo stima; e su tanti ecclesiastici che troppo
s’immischiano negli affari di Stato.
Era davvero meglio il monastero: pregare con gli altri, studiare,
scrivere... Ildefonso ci ha lasciato opere di dottrina e di
morale, trattati sulla Madre di Gesù, inni liturgici. E anche
l’opera divulgativa De viris illustribus (“Degli uomini
illustri”) che è un po’ una continuazione delle Etimologie di
Isidoro di Siviglia (ca. 570-636), la grande “enciclopedia” di
tutto l’Alto Medioevo. Ildefonso non può vivere senza
insegnare, convinto anche lui (come san Braulio, vescovo di
Saragozza) che il sapere "è un dono comune, non
privato", e che perciò deve essere distribuito a tutti.
Colpisce i fedeli la sua devozione mariana, suscitando anche
racconti di fatti prodigiosi.
Come quando, al momento di una
celebrazione solenne, apparve in chiesa la Madonna, porgendo a
Ildefonso l’abito liturgico (la pianeta) per il rito.
Dopo la morte, il suo corpo fu sepolto a Toledo; poi, con
l’invasione araba, venne trasferito a Zamora, in Castiglia. I
fedeli lo hanno “gridato santo” da subito, collegando sempre
il suo nome a quello della Beata Vergine Maria. E dieci secoli
dopo la sua morte sarà ancora così, nei dipinti dei maestri del
siglo de oro (il “secolo d’oro” dell’arte spagnola): El
Greco, Velázquez, Murillo, Zurbarán (suo il particolare del
dipinto riprodotto qui accanto), con molti altri in tutta Europa,
continueranno a raffigurare il vescovo di Toledo accanto alla
Madre di Gesù. Come anche Guido Reni nello stesso periodo, con
l’affresco conservato nella basilica di Santa Maria Maggiore in
Roma. La grande arte rifletteva così gli stati d’animo
popolari, espressi nel culto spontaneamente tributato a Ildefonso,
dai fedeli e dal suo successore Giuliano, che ne scrisse la vita.
Autore: Domenico Agasso
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