Giunio e la santità del lavoro   

Giunio Tinarelli nasce a Terni nel 1912. A causa delle ristrettezze economiche della famiglia, inizia a lavorare giovanissimo, a 12 anni. Tre anni più tardi, nel 1927, entra nelle Acciaierie ternane come aggiustatore meccanico delle grandi locomotive ferroviarie di allora. Lo fa per dieci anni, fin quando l'umidità, i gas e gli acidi tossici nel reparto delle materie sintetiche e il lavoro prolungato, gli procurano le prime avvisaglie del male con l'insorgere di gravi dolori reumatici. Ben presto si ammala di poliartrite ed è costretto a rimanere a letto fino al 1956, anno della sua morte.
Tinarelli è tra i primi ad aderire al movimento dei Volontari della Sofferenza fondato da mons. Luigi Novarese.
In un'omelia dei sua Ecc.za mons. Franco Gualdrini, vescovo di Terni-Narni-Amelia dice: "Desidero dire di lui e presentarlo proprio come uno dei tanti martiri del lavoro - in un lavoro insicuro e sfruttato - in un lavoro prematuro per la sua giovane età.
Desidero dire di lui, e additarlo ad esempio, per l'alimento di fede e di Chiesa che lo sostenevano e lo indirizzavano al lavoro, in particolare nella parrocchia e nell'oratorio che frequentava, nella famiglia cristiana da cui proveniva (anche il padre lavorava nelle acciaierie).
Desidero dire di lui lavoratore, scoprendo la spiritualità del lavoro, che vorrei però più propriamente chiamare la santità del lavoro".

 


Un raggio di sole tra le nuvole

di Felice di Giandomenico

Mi è capitato più volte di provare disagio, addirittura vergogna, davanti alla sofferenza di un essere umano e questo senso di disagio aumentava quando "l'altro", pur immerso nel tormento fisico, psichico e spirituale, era comunque capace di sorridere, di dire una parola buona, di accettare la sua situazione senza lamentarsi o ribellarsi ad essa.

Nessuna traccia di rabbia, nessun livore, nessuna teatralità; ciò che saltava subito agli occhi era solo un amore fatto di gesti semplici, impregnato di una dignità da far rabbrividire, da una fede incrollabile verso il Padre Celeste che diveniva luce in grado di scaldare i cuori di tutti.

Poche storie di vita mi hanno colpito e commosso quanto quella di Giunio Tinarelli, l'operaio ternano che concluse la sua vita terrena a 44 anni dopo un lungo periodo di immobilità e di sofferenze inaudite provocate da una poliartrite anchilosante.

Quello strano senso di disagio mi ha colto anche mentre leggevo le gesta di questo campione di umanità che ha saputo fare del suo patire un vessillo luminoso della sua breve ma intensa esistenza.

Potrà sembrare banale ma, scorrendo quelle pagine, non ho potuto fare a meno di pensare a tutte quelle persone refrattarie a qualsiasi tipo di contrarietà, di avversità o di rinuncia.

Sarà forse perché ho visto ragazzi andare in crisi perché non possedevano un telefonino cellulare; altri che, non potendosi permettere determinati stili di vita, vivevano uno stato di angosciosa insoddisfazione, magari solo perché il locale alla moda non era frequentabile per questioni di moneta.

Per non parlare poi delle profonde crisi esistenziali prodotte dal dover gioco forza fare a meno del futile, mal di testa o di denti che divenivano vere e proprie tragedie, rotture sentimentali in cui bisognava rievocare l'arte tragica greca di Eschilo, Sofocle ed Euripide.

Certamente ogni sofferenza deve essere rispettata sebbene possa sembrare inutile o banale ma, quando ci si imbatte in persone capaci di tener testa al dolore in tutte le sue poliedriche manifestazioni, non si può non avvertire quel disagio che mi ostino a chiamare vergogna.

In Giunio Tinarelli ho visto riassunte tutte quelle dolorose situazioni che manderebbero in frantumi l'esistenza di chiunque, specialmente in una società come quella contemporanea, tutta protesa all'avere e all'apparire.

La malattia, d'accordo, ma che dire dell'abbandono sentimentale della fidanzata proprio nel momento di maggior bisogno? Che dire di una riservatezza profanata da una cruda realtà che costringe a dover dipendere dagli altri anche per i bisogni più semplici e intimi?

Che dire del coraggio di sorridere nonostante tutto, di affrontare comunque le sfide della vita partecipando attivamente ad iniziative umanitarie, culturali e religiose?

Tinarelli è stato capace di plasmare il senso della sua vita sulla fede, sull'abbandono filiale a Dio; ha saputo orientare il suo patire e metterlo a disposizione degli altri come autentica testimonianza d'amore. Ma, si potrà obiettare, di Tinarelli ce ne sono stati molti e tanti altri ce ne saranno. Certamente sì, ringraziando Dio, ma in questo mondo che ha tanto bisogno di emblemi, questa figura rappresenta a pieno titolo un raggio di sole tra le nuvole, un'opportunità in più di comprendere che fede e amore sono gli antidoti più potenti contro ogni forma di dolore, sia esso fisico che spirituale.

Da più parti si legge che è importante trovare il senso della vita prima che sia troppo tardi ma, per riuscire nell'impresa, credo che sia importante rimuovere tutte quelle impalcature teoriche o ideologiche che il modernismo ci propone, evitando accuratamente di lasciarsi andare ai dettami di una civiltà sempre più ossessionata dal benessere e dal piacere ad ogni costo.

Attraverso vari e spesso disperati tentativi di scrivere "qualcosa di definitivo sulla superficie di un materiale effimero" l'essere umano si ritrova improvvisamente e senza accorgersene al cospetto della sua vulnerabilità, della sua fragilità, assolutamente impreparato a parare i colpi dell'imprevisto, del non atteso, dell'inconcepibile.

Senza timore di cadere nella retorica, sono convinto che vivere in superficie, senza affrontare con determinazione e coerenza la quotidianità, dribblando tutto ciò che ha a che fare con le dimensioni notturne della vita sia la via maestra per perdere sul serio il senso del nostro vivere.

Forse è certamente più comodo e agevole abbandonarsi indiscriminatamente a tutto ciò che è capace di distrarre la mente, alle seduzioni ed ai palliativi del consumismo, agli illusori surrogati di massa capaci di preservare momentaneamente dalla realtà contingente.

Il senso della vita non si trova autoingannando se stessi: l'autoinganno è come un serpente il cui veleno provoca narcosi mentali e spirituali, che rendono l'uomo incapace di comprendere fino in fondo che tutto "ciò che è terreno è scritto sulla sabbia della transitorietà" (Von Balthasar).

E, come si legge nel libro del Qoèlet, "Se il serpente morde prima d'essere incantato, non c'è niente da fare per l'incantatore" (Qoèlet 10,11).

Il senso dell'esistenza, allora, consiste innanzi tutto nell'eliminare quella strana ed inspiegabile tendenza dell'uomo di costruirsi da solo le proprie croci.

La croce che Gesù ci invita a prendere per seguirlo non è un incidente di percorso ma uno stile di vita certamente difficile da comprendere fino in fondo ma che, comunque, riesce a dare un senso a tutti gli eventi della vita che possono generare malessere e dolore.

A proposito di ciò, è utile e opportuno concludere questa breve riflessione con due pensieri di Giunio Tinarelli particolarmente illuminanti; due pensieri da meditare quando la vita diventa solo apparentemente ingenerosa nei nostri confronti:

"Amo la mia croce e, malgrado la mia indegnità, Gesù mi vuole vicino a Lui Crocifisso [...]. Chi si abbandona completamente al Signore, non sente più il grave peso della croce che gli è stata assegnata, ma bensì ha la gioia di gustare la sofferenza, è felice di essere crocifisso vicino a Gesù".

Chi è monsignor Luigi Novarese?

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