I resistenti del sud Sudan
Il sangue dei martiri e la fede dei missionari
comboniani hanno generato i cristiani sudanesi, più forti dell'islamizzazione
forzata.
La mamma che allatta il suo bambino con le gambe fasciate non può
avere più di 18 anni. Piange piano nello stanzone maleodorante e buio
dell'ospedale di Rumbek, devastato dalla guerra. La mina è scoppiata
dietro casa, mentre lei era al mercato. Suo figlio più grande, cinque
anni, è morto. Aveva in braccio il fratellino di pochi mesi, che si
è salvato. Altri bambini piangono, distesi su letti arrugginiti e su
stuoie maleodoranti tra le
rovine dell'ospedale. La guerra nel sud del Sudan dura da oltre mezzo
secolo. Due milioni di morti negli ultimi venti anni. Sei milioni di
uomini donne e bambini che hanno dovuto abbandonare le loro case e
vagano per il
paese, in un territorio grande tre volte l'Italia. Qui ci sono solo
tre medici stabili e una ventina di volontari per dieci milioni di
persone, sterminate dalle malattie: da venticinque anni non si fanno
vaccinazioni.
Carovane
di mercanti arabi di schiavi fanno irruzione nei villaggi cristiani e
portano via i bambini: è la sorte di almeno diecimila piccoli dinka e
nuer (le tribù più diffuse nel sud Sudan). Migliaia di bambini hanno
affrontato
dieci anni fa una marcia di oltre un anno nella savana e nel deserto
per sfuggire ai massacri. Molti sono morti per fame, annegati tentando
di guadare le paludi del Nilo, sbranati dalle belve. Nessuno li ha mai
contati,
nessuno ne ha mai parlato. Non è solo una tragedia umanitaria. I
vescovi hanno parlato di genocidio, eliminazione di un popolo, ma sul
grido di questa gente è stato steso un velo di silenzio e
indifferenza.
Quasi 50 anni di guerra
La
guerra inizia nel 1955, quando sta per essere proclamata
l'indipendenza del Sudan. Nel sud cristiano e animista nascono prima i
guerriglieri anya-nya e poi l'Spla, il Sudan people liberation army,
che si ribella al governo che vuole imporre la sharia, la legge
coranica. Il Sudan è l'unico paese al mondo dove c'è stato un colpo
di Stato militare per impedire che fossero attenuati i rigori del
fondamentalismo islamico. è accaduto nel 1989. Fuori legge persino i
partiti musulmani moderati. Proibito ai cristiani di predicare ai
musulmani. La Chiesa è considerata una organizzazione non
governativa. Nella carta dei diritti dell'uomo la parola
"persona" è tradotta con "musulmano", gli altri
non hanno dignità. Le cose sono peggiorate dopo la scoperta del
petrolio nelle province del Sud. Ora il governo arabo vuole a tutti i
costi controllare i territori meridionali e per questo deve
"ripulirli" dalle popolazioni cristiane. E ripulire vuol
dire sterminare, costringere le famiglie a separarsi, a fuggire,
catturare i più giovani, uccidere gli uomini, gettare i cadaveri nei
pozzi in modo da avvelenare l'acqua per anni. La tregua, proclamata
nel gennaio dello scorso anno su pressione degli Usa, sta per scadere.
E si teme che tra poche settimane possano ricominciare nuovi
combattimenti. E la carestia che tre anni fa sterminò 250mila
persone.
La grande forza della fede
Ho
viaggiato per tre settimane nell'inferno del Sud Sudan con i
missionari comboniani. Uno di loro, monsignor Cesare Mazzolari, è
vescovo di Rumbek, la sua cattedrale è stata ricostruita da poco,
delle altre chiese restano in piedi solo i muri, la croce sulla
facciata e il tabernacolo trafitti dai proiettili. Tra le macerie
giocano bambini completamente nudi. Tutti gli edifici in pietra sono
stati bombardati: rasa al suolo la stazione
televisiva, il complesso di scuole che era il più grande dell'Africa
centrale ridotto ad un ammasso di macerie. Cesare Mazzolari, proprio
come Daniele Comboni, che domenica sarà proclamato santo, è vescovo
tra le tribù
dinka, gli uomini e le donne altissimi e del colore del bronzo di cui
parla il profeta Isaia, nella Bibbia. Qui, tra le rovine della guerra,
sta nascendo qualcosa di nuovo e di grande. Ci sono storie che
spalancano il
cuore, come quella di Emmanuel, un ex ragazzo soldato: «Avevo dodici
anni, - racconta - ero in un campo profughi in Etiopia. Ci dissero che
bisognava combattere. Ci hanno addestrato e poi siamo andati al
fronte. Ho
combattuto.Ho visto i miei amici morire, uccisi in combattimento. Io
sono stato ferito. Mi hanno portato all'ospedale, lì sono diventato
cristiano. C'era un gruppo di persone che si riuniva tutte le mattine.
Ho chiesto loro: cosa fate? Mi hanno detto: siamo cristiani. Stiamo
pregando. Erano amici, li vedevo stare insieme. Aiutare gli altri. Ho
cominciato ad andare ai loro incontri di preghiera, a parlare con
loro. Ma presto ho detto al catechista: come posso diventare
cristiano? Ho sparato e forse ho ucciso dei ragazzini come me. Ma il
catechista mi ha detto: sei stato battezzato, i tuoi peccati non
esistono più. Ora sono un seminarista. Voglio diventare sacerdote».
Una speranza per i lebbrosi
Fra'
Rosario Iannetti, medico e missionario, opera in una tenda, visita i
malati, istruisce gli infermieri locali, giorno dopo giorno ricomincia
la sua difficile missione, e non lo spaventano la dispensa vuota
dell'ospedale,
i casi terribili che vede ogni ora, il caldo e la fatica. Nella sua
zona, a Mapourdit, più che la guerra ora uccidono le malattie
devastanti. Terribile da vedere il reparto dove sono ospitati i
lebbrosi, la malattia qui ha
effetti devastanti. Questi malati, se presi in tempo, potrebbero
guarire senza gravi conseguenze: la lebbra oggi si cura con una
terapia di alcuni mesi. Ma la mancanza di medici rende impossibile
affrontare in tempo il
male. Le piaghe sono aperte, le dita, le mani e i piedi devastati dal
morbo. La paura e il ribrezzo costringono molti lebbrosi a vivere
appartati con le loro famiglie. Visitiamo un villaggio abitato solo da
malati. Ed è
sorprendente trovarli al lavoro nei campi: stanno arando. «I
missionari ci hanno insegnato a coltivare - ci dicono sorridendo - Ora
possiamo dar da mangiare ai nostri figli e non dobbiamo più vivere di
aiuti. Ci sentiamo
finalmente uomini». E festeggiano il vescovo che li abbraccia senza
imbarazzo. Le sue parrocchie della diocesi sono guidate da pochi
coraggiosi missionari. C'è chi è stato per mesi in prigione, e anche
in cella ha
continuato a predicare il Vangelo, chi ha rischiato e rischia la vita.
Ci sono catechisti, convertitisi dall'islam, che sono stati uccisi e
crocefissi per rappresaglia. Il primo martire sudanese, padre
Arcangelo Ali, fu torturato e ammazzato nel 1965, in odio alla sua
fede. Da allora ce ne sono stati molti altri. Missionari e martiri.
Come padre Ali hanno costruito piccoli ospedali e scuole, frequentate
da migliaia e migliaia di ragazzi.
Sono la speranza più concreta. Suor Mary, una religiosa keniota,
insegna ad un gruppo di ragazze: «Le donne nella cultura tradizionale
delle tribù sono sottomesse in tutto agli uomini. Non hanno nessuna
possibilità di studiare, di essere indipendenti. Alla missione
imparano a leggere e scrivere, a cucire le stoffe, imparano le norme
di igiene e di alimentazione.
E
soprattutto, con l'istruzione, sta cambiando la loro mentalità. Non
si sentono più destinate ad essere inevitabilmente sottoposte
all'uomo. Sono più sicure di sé, più indipendenti, più libere».
Nei villaggi i cristiani
prestano aiuto ai profughi che arrivano dalle zone dove ancora si
combatte: «Noi siamo fuggiti dalle nostre terre - dice un uomo -
perché gli arabi volevano il petrolio. Non eravamo cristiani, ma
quando siamo arrivati qui i cristiani ci hanno aiutato, nonostante
fossimo di una tribù diversa. Siamo diventati cristiani, e la fede
ora è la cosa più importante per noi. Qui ci hanno dato cibo e una
terra dove fermarci, ma il più grande aiuto è stata la fede
cristiana».
Le cifre, le statistiche non dicono tutto. Monsignor Cesare e gli
altri missionari confessano i bambini sotto gli alberi. Il vescovo ha
per ogni bimbo un gesto di tenerezza, una carezza sul viso, prima del
segno di croce.
Domani si rimetterà in viaggio. Non c'è uomo, donna o bambino che
non valga da solo tutto l'Universo e non meriti la fatica terribile
del cammino.
di Giojelli Giancarlo
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(c) 2003 - Editoriale Tempi duri s.r.l.
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