PLINIO IL GIOVANE
(61-120 circa)
Senatore e avvocato, verso
il 111 d.C. fu inviato con poteri di governatore nella provincia della
Bitinia e del Ponto. Lì alcuni cristiani denunciati avevano confessato di
non essere più cristiani da molto tempo e avevano raccontato a Plinio la
miseria della loro fede precedente: “…che erano soliti radunarsi in un
giorno prestabilito prima dell’alba, e inneggiare a cosi alterni a Cristo
come a loro Dio e che si erano impegnati con giuramento a non commettere
alcun delitto, bensì a evitare il furto, il brigantaggio, l’adulterio,
l’infedeltà e l’appropriazione di un bene affidato.”
Plinio scrive all'Imperatore Traiano:
“E’ per me un dovere, o
signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali
sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o
istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani;
pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire
o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di
qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera
età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del
vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a
colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver
cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur
se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che
mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura:
chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li
interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena
capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti
non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere
punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne
furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano
cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben
presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di
solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi
capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un
libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di
essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere
in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo,
invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo
scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando
imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad
ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani. Altri,
denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito
dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo,
chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni.
Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli
dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta
la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima
dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse
un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche
delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a
non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di
un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la
consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere
un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di
fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni,
avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più
ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette
ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo
pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una
superstizione balorda e smodata.
Perciò, differita
l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi
parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il
numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte
persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono
trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto
la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal
contagio di questa superstizione; credo però che possa esser
ancora fermata e riportata nella norma” (Epist. X, 96, 1-9)
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Segue la risposta dell’imperatore Traiano:
“Mio caro Plinio,
nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati
denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale
dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola
generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si
deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti
colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà
negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè
rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato
sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento.
Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere
di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo
esempio, indegna dei nostri tempi” (Epist. X, 97)
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