Se il capo impone il tag
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Può un chip grande come un chicco di riso
infiammare una polemica che ormai dura da diversi mesi in uno dei paesi
più hi-tech della Terra? Certo che può. È ciò che sta avvenendo negli
Stati Uniti dopo che due dipendenti della CityWatcher.com, impresa per la
fornitura di sistemi di sorveglianza, hanno acconsentito, su richiesta
dell'azienda, a farsi impiantare negli avambracci un minuscolo microchip
munito di tag Rfid.
Il minuscolo dispositivo consente l'accesso ai caveau dove la società
custodisce i suoi documenti riservati. Per fare scattare la serratura,
basta passare il braccio taggato sotto un lettore disposto all'entrata
della stanza blindata, e il gioco è fatto. “E' solo un modo per garantire
più sicurezza, una tecnica avanzata al pari della scansione della retina o
delle impronte digitali”, minimizza CityWatcher.com. Buona parte
dell'opinione pubblica americana, però, non sembra esserne troppo
convinta.
Già in passato casi di persone che erano state “tracciate” con un
microchip avevano sollevato clamore. Però si trattava di decisioni
volontarie, non provocate da soggetti esterni né per motivi professionali.
La notizia che, per la prima volta, su sollecitazioni di un datore di
lavoro dei dipendenti hanno fatto una scelta simile, per molti è stata la
goccia che ha fatto traboccare il vaso. Scatenando un grande dibattito sui
limiti dello sviluppo tecnologico e sul diritto dell'individuo a tutela
della privacy.
Eppure gli Usa da molto tempo hanno esperienza in materia di tracciabilità.
Risalgono a 30 anni fa, infatti, i primi dispositivi elettronici applicati
al bestiame per permettere agli allevatori di distinguere gli animali da
riproduzione. Negli anni Novanta, ancora, microchip sono stati impiantati
nel pesce, in cani e gatti, persino nei cavalli da corsa. Apparecchiature
del genere si trovano nei Telepass, nelle carte di credito, nelle tessere
pre-pagate. Ancora, tag sono innestati nelle gomme della Michelin, nei
libri delle biblioteche, nei passaporti, nelle uniformi del lavoro e nei
bagagli.
Allora cos'è che, adesso, fa gridare allo scandalo? In breve, il fatto che
gli impiegati di CityWatcher.com non sono oggetti di cui seguire la catena
di lavorazione né animali domestici da controllare, ma esseri umani
taggati per motivi di lavoro. Su imposizione dall'alto, insomma.
“Allarma che una società che fornisce al governo apparecchiature
fotografiche di sorveglianza per controllare le vie cittadine utilizzi la
tecnologia per fare lo stesso sui propri dipendenti”, afferma Liz McIntyre,
autrice del libro “Spychips: how major corporations and government plan to
track your every move with Rfid”. Una critica alla quale CityWatcher.com
ha replicato sostenendo che i due impiegati si sono offerti
volontariamente per l'esperimento. “Un'accusa del genere sarebbe legittima
se li avessimo costretti con la forza”, è la difesa: “Una coercizione che
nessuno si è mai sognato di fare”.
Intanto l'episodio ha spinto sulle barricate una compagine variegata di
rappresentanti della società civile: dai gruppi liberali ai movimenti
religiosi. Per tutti l'impianto di tag e microchip nelle persone
rappresenta un pericolo da contrastare in ogni modo. “Il rischio è che,
un giorno, il governo o il vostro datore di lavoro possa darvi l'aut-aut:
o accetti di essere taggato o sei fuori”, è la previsione di Katherine
Albrecht, rappresentante di un'associazione di consumatori. Per alcuni
fondamentalisti cristiani l'impianto di un tag rappresenta addirittura
l'adempimento di una profezia biblica, là dove si preannuncia l'avvento di
un'era della malvagità in cui gli esseri umani sono costretti ad assumere
“il contrassegno della bestia”.
Ma qual è la verità? Senza scomodare simili catastrofismi, gli analisti
più accreditati imputano tanto clamore al clima di sconcerto che sta
attanagliando gli Usa dall'11 settembre 2001. Il crollo delle Torri
Gemelli ha segnato l'inizio di un'epoca della paura dove tutto – sia
l'assenza di controllo che l'eccesso di sorveglianza – è vissuto, al tempo
stesso, come una minaccia e una rassicurazione, come causa di inquietudine
e come risposta a un bisogno di sicurezza.
“Lo sviluppo dell'Rfid, di fatto inarrestabile, non potrà che verificarsi
in un clima ugualmente caratterizzato dalla fiducia e dal sospetto, dalla
curiosità per il nuovo e dalla diffidenza”, afferma, così, Barry
Steinhardt, direttore del Technology and Liberty Program dell'Unione
americana per le libertà civili di Washington. “Perché se è vero che tag e
reader si stanno rivelando come strumenti importanti al servizio dello
sviluppo, ugualmente certo è che, come tutti gli strumenti che gestiscono
dati e informazioni, sollevano riflessioni morali che sarebbe sbagliato
sottovalutare”.
Emblematiche, così, le parole di John Halamka, medico del Beth Israele
Deaconess di Boston, a proposito del microchip che si è fatto innestare un
paio di anni fa. “Per me è stato come vaccinarmi”, sostiene. “L'ho fatto
perché, qualora fossi vittima di incidente e fossi portato in un pronto
soccorso in stato d'incoscenza, i dottori possano identificarmi e avere un
accesso rapido al mio quadro clinico”. Per poi confessare: “I miei amici
dicono che adesso sono segnato a vita, che ho perso il mio anonimato. E,
se devo essere onesto, penso che abbiano ragione”.
di
Luca Saitta 26 luglio 2007
Fonte: http://www.rfiditalia.com/index.php?option=com_content&task=view&id=621&Itemid=29
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