Qui Nairobi. Dai nostri inviati dal
Vaticano
ROMA, 1 febbraio 2008
di Sandro Magister
In Africa la
regione equatoriale che va dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano è tra
le più cristianizzate. Lì, da nord, l'espansione dell'islam si è fermata,
salvo che lungo la costa orientale. La Chiesa cattolica vi ha una presenza
cospicua.
Eppure questi stessi paesi sono teatro da molti anni di eccidi e di guerre
tra le più sanguinose. In Rwanda, in Burundi, nella Repubblica Democratica
del Congo i massacri hanno fatto milioni di morti. Ora i conflitti sono
esplosi anche in Kenya. Gli scontri non hanno moventi religiosi, ma
nemmeno le chiese sono un rifugio per le popolazioni in fuga. Il 7 gennaio
a Eldoret più di cinquanta persone inermi, tra cui donne e bambini, hanno
perso la vita in una chiesa data alle fiamme.
La mattina di sabato 26 gennaio è stato ucciso padre Michael Kamau
Ithondeka, 41 anni, sacerdote della diocesi di Nakuru, vice rettore del
seminario maggiore "Mathias Mulumba" a Tindinyo. Sulla strada tra Nakuru
ed Eldama, nella Rift Valley, è stato bloccato, strappato dalla macchina e
finito a colpi di pietre e machete. La sua colpa era di essere di etnia
kikuyu, prevalente nella zona, mentre gli aggressori erano kalenjin. Tra
queste e altre comunità etniche è ormai guerra aperta. Padre Kamau tra il
1998 e il 2002 aveva vissuto a Roma, dove aveva studiato al Pontificio
Istituto Biblico. Lo ricordano come "un bravo insegnante e un grande
conoscitore delle Sacre Scritture: una conoscenza che desiderava
trasmettere ai suoi studenti". Dopo l'assassinio, il vescovo di Nakura,
Peter J. Kairo, ha dovuto evacuare dieci parrocchie, le più minacciate.
Il 28 gennaio nella capitale Nairobi è stato ucciso in un agguato Mugabe
Were, deputato dell'Orange Democratic Movement, il partito di Raila Odinga,
il leader dell’opposizione che contesta la vittoria del presidente Mwai
Kibaki alle elezioni del 27 dicembre 2007. L'agenzia Fides della
congregazione vaticana per l'evangelizzazione dei popoli ha riferito che
Were era "un cattolico molto impegnato nelle baraccopoli e nel centro per
i giovani creato a Nairobi da padre Adelmo, un missionario comboniano che
ora si è ritirato in Etiopia come eremita". Alla notizia della sua
uccisione "sono scoppiati tumulti a Kibera e a Mathare, due delle maggiori
baraccopoli di Nairobi. A Kibera la linea del fronte è la ferrovia che
attraversa lo slum e che divide i kikuyu dagli altri".
Conflitto politico tra i due maggiori partiti del paese? Conflitto tra le
etnie? Se il movente non è religioso, perché questa guerra fratricida tra
cristiani? I media internazionali si limitano a riferire sul Kenya, quasi
ogni giorno, notizie di nuovi massacri, sullo sfondo dello scontro
politico tra i due leader rivali. Sotto questo profilo, gli organi di
informazione della Santa Sede appaiono molto più informati. Sui fatti e
soprattutto sui moventi.
Ne è una prova l'articolo riprodotto qui sotto, pubblicato su
"L'Osservatore Romano" del 30 gennaio 2008. Esso riconduce il conflitto,
con acutezza di analisi, al "seme terribile del tribalismo". Più forte
dell'opera di conciliazione tentata dalla Chiesa cattolica e dalle altre
confessioni cristiane.
Stando all'edizione del 2003 dell'Annuario Statistico della Chiesa, in
Kenya i cattolici sono 8 milioni su 32 cioè un quarto della popolazione, i
vescovi 25, i sacerdoti 1.962, le religiose 3.747, i missionari laici 903,
gli alunni dei seminari maggiori 1.502, i catechisti 9.107, le parrocchie
708, i centri di missione 4.234.
Nel concistoro del 24 novembre 2007 Benedetto XVI ha fatto cardinale
l'arcivescovo di Nairobi, John Njue. E poco prima, il 19 novembre, aveva
ricevuto tutti i vescovi del Kenya in visita ad limina. Nel discorso
tenuto dal papa nell'occasione, nessun accenno faceva presagire
l'imminente esplosione del conflitto.
L'autore dell'articolo è un missionario comboniano che opera in Kenya da
16 anni:
Le radici della violenza
di Giuseppe Caramazza
Sulla stampa internazionale, le violenze
che stanno scuotendo il Kenya vengono ancora definite in rapporto alla
vertenza elettorale, apertasi alla fine di dicembre nel paese africano. In
realtà non si dovrebbe confondere la protesta politica con le uccisioni
che avvengono soprattutto nella Rift Valley, la regione che spacca il
paese in due, da nord a sud. Né si dovrebbe far dimenticare le centinaia
di persone uccise e gli oltre 250.000 sfollati interni, per lo più
ospitati da parrocchie e conventi. È peraltro vero che un nesso tra crisi
politica e violenze esiste.
Durante la campagna elettorale, l'opposizione politica ha spesso detto
che, una volta al potere, avrebbe dato vita alla politica del majimbo. È
questo un termine swahili che potremmo tradurre con regionalizzazione. La
Chiesa cattolica, come altre confessioni cristiane, si è subito detta
contraria. Perché?
Al tempo del colonialismo, gli inglesi hanno diviso il paese secondo linee
tribali, non sempre in linea con i territori davvero controllati dalle
varie etnie. Si è arrivati così a una rigida divisione territoriale che è
stata poi adottata dalla nascente repubblica del Kenya. Non va dimenticato
che quando gli inglesi hanno preso il controllo del Kenya, essi hanno
voluto vedere nella società africana una realtà ferma da secoli, mentre
c'erano popolazioni in movimento e, in alcuni casi, territori comuni che
venivano sfruttati in maniera diversa da due o più gruppi etnici.
Non va poi dimenticato che la popolazione del Kenya di duecento anni fa
era una piccola frazione di quella odierna. I confini di ieri sarebbero
improponibili oggi. Con l'indipendenza, l'amministrazione centralizzata
inglese è continuata, e anzi si è rafforzata durante gli anni della
semidittatura del presidente Daniel Toroitich Arap Moi.
I fautori del majimbo vogliono restituire alle regioni il diritto di
amministrare le proprie risorse. Il governo non ha accettato questa tesi.
Le Chiese si sono schierate contro l'idea perché nasconde il seme
terribile del tribalismo.
Già nel passato l'ex presidente Moi ha usato questa carta per rafforzare
la sua posizione presso le etnie della Rift Valley. Ogni volta che ha
voluto impaurire i residenti non originari della zona, li ha minacciati
proprio con il majimbo. Il messaggio era chiaro. Chi non è originario di
un luogo non ha il diritto di vivervi e di avervi delle proprietà. Questo
va contro il dettame costituzionale che vede il Kenya come un paese
unitario e che dà ai kenyani il diritto di vivere ovunque all'interno dei
confini della nazione. Si tratta di principi non facilmente recepiti da
molti che ancora oggi percepiscono come luogo d'origine il territorio
ancestrale quale era stato delineato dall'amministrazione coloniale.
Dopo il pasticcio delle elezioni presidenziali del 27 dicembre scorso, in
varie zone della Rift Valley alcuni membri delle etnie locali hanno visto
la possibilità di cacciare gli "stranieri" e impossessarsi delle loro
terre e altri beni. È chiaro che l'etnia più colpita sia quella dei kikuyu.
Essi sono il gruppo etnico più grande, il loro territorio ancestrale è
inadeguato per accoglierli tutti, e così molti kikuyu hanno acquistato
terreni nella Rift Valley e li hanno trasformati in fattorie modello.
Ma non si tratta solo di kikuyu. I luya sono stati presi di mira nella
zona di Eldoret, i kamba vicino a Nakuru, i kisii a Kipkelion. Non ci si
poteva aspettare che i kikuyu rimanessero con le mani in mano e infatti ci
sono state violenze a Nakuru e Naivasha, città a maggioranza kikuyu.
Non va dimenticato come i fatti peggiori siano accaduti proprio dove da
anni si vive l'insicurezza. Gli scontri di Londiani, Molo, Cherengani
hanno oggi un che di sinistro, dopo che in queste zone ci sono state
violenze simili quasi continuamente negli ultimi cinque anni. Non si
tratta quindi di una nuova tensione, ma dell'esplosione di una violenza
che ha radici antiche.
Negli ultimi giorni, inoltre, il gruppo di difesa dei diritti umani Human
Rights Watch ha pubblicato un rapporto in cui afferma che i politici dell'Orange
Democratic Movement, il partito di opposizione, hanno fomentato l'odio
etnico in molte zone, hanno raccolto fondi per l'acquisto di armi e hanno
chiesto ai residenti di scacciare i membri di altre etnie dalle loro
terre. Nuove investigazioni faranno più luce su queste accuse. È chiaro
però che il majimbo è stato invocato dall'opposizione e che questa ha un
debito di coscienza sulle violenze degli ultimi giorni.
A Nairobi le manifestazioni politiche sono rientrate, per dare spazio a
varie iniziative di mediazione. Le baraccopoli, che su meno del 10 per
cento del territorio urbano ospitano la maggioranza della popolazione,
sono tenute sotto controllo. Finora, non si è riusciti a portare governo e
opposizione allo stesso tavolo. L'ex segretario generale dell'ONU Kofi
Annan ha lavorato seriamente nei giorni scorsi ed è riuscito a far aprire
spiragli di dialogo. I vescovi hanno incoraggiato Kofi Annan a continuare
sulla strada intrapresa e hanno invitato il presidente Mwai Kibaki e il
leader dell'opposizione Raila Odinga a dare spazio al dialogo.
Il dialogo tra le parti in causa è sempre stato la soluzione adottata dai
kenyani per dirimere questioni tra due rivali. Tuttavia, le violenze e le
pubbliche accuse scambiatesi tra le due parti rischiano di frenare il
processo e di togliere lucidità ai contendenti. Qualunque sia la soluzione
politica, è chiaro che i grandi temi su cui si dovrà lavorare sono quelli
irrisolti durante il precedente governo di Kibaki: distribuzione equa
delle terre e accesso di tutti alle risorse del paese, crescita del senso
civico della popolazione e suo diritto a partecipare al dibattito
politico.
***
I due organi vaticani che forniscono sul
Kenya le notizie più approfondite:
>
L'Osservatore Romano
> Fides
Un'altra fonte d'informazione cattolica specializzata è la Missionary
International Service News Agency:
> MISNA
Il discorso rivolto il 19 novembre 2007 da Benedetto XVI ai vescovi del
Kenya in visita ad limina:
> "Cari fratelli vescovi..."
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