La rivolta popolare
nel Paese centro-americano che ha segnato profondamente il Paese e la
Chiesa cattolica. Intervista esclusiva al maggiore conoscitore della
cristiada messicana, che racconta dei suoi studi su una storia per decenni
argomento tabù.
Se la cristiada, in Messico, non
è più un tabù, il merito è anche suo. Dove l’“anche”, in questo
caso, ha le dimensioni del monumento dell’Angelo dell’Indipendenza
nella celebre avenida Reforma della capitale messicana.
La trilogia di Jean Meyer sulla cristiada
- “La guerra”, “I cristeros”, “Il conflitto tra la Chiesa
e lo Stato” - la si incontra ben esposta nei posti più impensati: la
biblioteca di un politico, magari anticattolico, una biblioteca pubblica
di quartiere, le librerie commerciali del centro di Città del Messico, la
sala d’aspetto di un alto ecclesiastico, la libreria di una università
pubblica... tutti posti, insomma, dove ciò che parlava della sollevazione
degli anni 1926-1929 e dell’aggressione dello Stato ai danni della
Chiesa messicana non trovavano facile ricovero o quantomeno non erano cosa
che si desiderasse esibire in pubblico.
Tale è stato il lavoro di Meyer, così
abbondanti le fonti, tanto certosina la ricerca che le conclusioni della
sua indagine appaiono incontrovertibili e non coincidono certo con quelle
della storiografia dominante sino a un paio di decenni fa.
Nella nota introduttiva al primo dei tre
volumi dedicati alla cristiada Meyer confessa di essere partito -
nella sua investigazione - «da un punto di vista personale ostile ai cristeros».
L’approfondimento successivo, fatto di documenti cartacei spesso
strappati ai possessori con la tenacia del cacciatore, ma anche - e
soprattutto - di incontri con centinaia di sopravvissuti della guerra cristera,
ha modificato sostanzialmente l’approccio iniziale cambiando con il
punto di vista del ricercatore anche l’autore stesso della ricerca.
Bisognerebbe sentire parlare Meyer dei cristeros per rendersene
pienamente conto e capire quanto questa gente abbia influito sulle sue
ipotesi di ricerca, ma anche sulle sue convinzioni più profonde e dunque
sulla sua vita personale. Per dirla con le sue stesse parole i cristeros,
oggi morti, «sono diventati un annuncio di vita, mi hanno fatto aprire
gli occhi su quello a cui tendiamo eternamente».
Dopo esservi giunto come giovane
ricercatore alla vigilia del celebrato ’68 europeo per realizzarvi la
tesi di dottorato in Lettere alla Sorbona, Meyer ha poi fatto del Messico
la sua casa e della guerra cristera il suo interesse principale
(anche se non esclusivo). Oggi Jean Meyer, longilineo professore dai
capelli bianchi, continua a vivere nella megalopoli latino-americana, dove
presiede un centro di ricerche storiche, dirige una rivista, collabora a
quotidiani e periodici, detta conferenze e continua l’inesauribile
ricerca...
Lei ha lavorato per quasi
quarant’anni alla cristiada. Non è così?
Un po’ meno, esattamente dal 1965, da
quando sono venuto in Messico, ancora studente universitario, per
preparare la tesi di dottorato in Lettere, che ho poi sostenuto a Parigi
nel 1971.
Dopo tanto lavoro c’è qualche
punto oscuro, qualcosa su cui le sembra di non aver raggiunto una
sufficiente chiarezza?
Mi piacerebbe frugare un po’ negli archivi vaticani, ma purtroppo non
sono stati ancora aperti. Proprio in questi giorni ho appreso - ed è una
buona notizia - che gli archivi dell’arcidiocesi del Messico finalmente
sono accessibili ai ricercatori. Uno studente franco-messicano - Ives Solís
- vi sta lavorando con piena libertà. C’è molto materiale che mi
sarebbe piaciuto conoscere tempo fa…
E cosa spera o crede di trovare
se le venisse dato il permesso di rovistare negli archivi vaticani?
Non penso ci riservino grandi scoperte; abbiamo l’esperienza
dell’apertura degli archivi sovietici e quel che è emerso da quella
massa enorme di documenti ha fondamentalmente confermato quello che già
si sapeva. Una conferma importante, senza dubbio, poiché molte cose non
possono più essere liquidate come parto fantasioso di anticomunisti
paranoici, ma pur sempre una conferma.
Ma c’è qualcosa, riguardo
alla cristiada, che le sembra debba essere ancora approfondito?
Resta da investigare un po’ di più la dimensione politica ed
ecclesiastica del conflitto, soprattutto a livello di elites
dirigenti, tanto del Governo come della Chiesa.
Cosa vuol dire?
Che la sociologia della cristiada - “chi” vi ha partecipato e
“perché” - e la stessa storia militare del movimento armato - le
forze in campo e le direttive strategiche e tattiche in base a cui si
muovevano - tutto questo ritengo sia stato chiarito fin nei dettagli. Quel
che manca da approfondire sono le divisioni profonde all’interno dello
Stato e all’interno della Chiesa, quella messicana e quella romana. Da
ciò che si conosce - e per questo l’apertura degli archivi vaticani per
gli anni della cristiada sarebbe importante - si capisce che il
Papa era sottoposto a pressioni pesanti, tanto dai fautori dell’accordo
come da quelli favorevoli a una radicalizzazione dell’atteggiamento
dell’autorità ecclesiastica davanti allo Stato messicano. Il Papa
vacilla, esita, dubita. Tra il 1925 e il 1929 cambia opinione più di una
volta; solo a partire dal ‘29 adotta una linea determinata e non vacilla
più; da quell’anno in avanti la sua posizione sarà ferma. Pertanto
sarebbe interessante investigare un po’ meglio da chi sono rappresentate
e dove passano le linee di influenza che si contendevano l’autorità
pontificia riguardo alla cristiada.
È una prudenza politica, quella di
cui parla, o vi si può vedere anche una insufficienza culturale, di
approccio al tema, diciamo così?
Credo di poter dire che vi sono tre fattori che intervengono in misura
diversa e al medesimo tempo: prudenza politica, insufficienza culturale,
risultato di cinquant’anni di silenzio da parte della Chiesa e un certo
rancore: tra le persone più attempate, che adesso sono morte, chi era
favorevole all’insurrezione cristera - o addirittura vi aveva
preso parte - provava risentimento verso la Chiesa, si sentiva tradito,
oppure, da parte dell’altra fazione, quelli che erano sempre stati
contrari all’insurrezione, accusavano la Chiesa per la ragione opposta,
per essere stata complice della sollevazione. Quindi è più esatto
parlare di tre ragioni sottese all’imbarazzo generale - fino alla
reticenza - nei confronti della cristiada.
E oggi? In che misura sono
cambiate le cose? Glielo chiedo a partire dalla sua esperienza di
ricercatore e docente.
Guardi, trent’anni fa, quando ho pubblicato i miei libri sulla cristiada,
premettevo che ai cristeros era mancata la giustizia, la gloria, la
storia. Ed era veramente così. Trent’anni fa, in Messico, non si poteva
parlare di cristeros. Cercherò di farglielo capire con un ricordo
personale. Mi trovavo in una piazza di Città del Messico, piazza
Garibaldi per l’esattezza, e in piazza c’era anche un gruppo di mariachi
che suonavano temi del folklore nazionale; a un certo punto mi sono
avvicinato e - come si usa - gli ho chiesto di cantarmi qualcosa di Valentín
de la Sierra, un noto cristero che ha composto una canzone che in
una strofa dice: «Madre mia, per te mi uccidono», riferito, ovviamente,
alla Madonna. I mariachi si sono guardati tra di loro imbarazzati e
mi hanno risposto che non conoscevano nulla di lui. Un po’ di tempo
dopo, in uno dei tanti viaggi a Guadalajara - la capitale dei cristeros
- ho fatto la stessa richiesta e lì mi hanno risposto che la conoscevano
e l’avrebbero potuta cantare; non, però, in un luogo pubblico - mi
dissero - ma solo in una casa privata.
Adesso Valentin de la Sierra è in testa alle classifiche del folklore
nazionale.
Le è facile parlare della cristiada
negli ambiti ecclesiastici messicani? Può farlo senza cautele, in piena
libertà?
Sono arrivato in Messico nel 1965, avevo 22 anni; in quel momento il
conflitto religioso nella sua tappa armata - che ebbe l’apice tra il
1926 e il 1929 - era un avvenimento ancora recente. Se poi si tiene conto
che una piccola guerriglia continuò fino al 1940, quando la Chiesa
delegittimò ogni sollevazione armata per motivi religiosi, beh, si
capisce che il tema cristiada era ancora molto sensibile nella
memoria di tutti. L’allora arcivescovo di Città del Messico, Darío
Miranda, poi creato cardinale, aveva vissuto la persecuzione religiosa,
poi la sollevazione cristera e di nuovo la persecuzione religiosa che ne
è seguita - mi diceva che la brace era ancora accesa sotto la cenere e
bastava un venticello per provocare una scintilla e riappiccare
l’incendio.
Non solo la Chiesa non ne parlava in pubblico, ma non ne parlava neppure
nei seminari; nella stessa storia della Chiesa messicana il capitolo cristiada
era evitato, o toccato con una prudenza tale che si cadeva nel ridicolo
storico. Ricordo la mia sorpresa, nel 1968, a Pontegrande, nel Jalisco; lì,
in questo Stato che divenne l’epicentro della sollevazione armata,
c’era il seminario della Compagnia di Gesù dove io andavo a lavorare,
perché era dotato di un grande archivio, che i gesuiti mi avevano aperto
molto generosamente, diversamente dal Governo, che allora non mi aveva
permesso di vedere nessun archivio, e diversamente anche dalla Chiesa nei
suoi livelli di ufficialità. Un giorno si sono avvicinati dei giovani
studenti e mi hanno chiesto perché passavo tutti i fine settimana chiuso,
lavorando su testi, fogli, documenti. Cominciai a parlare con loro
raccontandogli del mio lavoro di ricerca sulla cristiada e mi sono
accorto che non sapevano assolutamente nulla, nulla, pur vivendo in una
regione che è stata uno degli epicentri di questa eruzione armata.
Allora, con il permesso del prefetto, ho fatto una conferenza per i
seminaristi. Anche in questa occasione sono rimasto esterrefatto della
loro totale ignoranza dell’argomento. Questo per dirle come erano le
cose trent’anni fa.
Un bel cambio, non c’è che
dire…
C’è riappropriazione e riappropiazione, così come c’è memoria
culturale e memoria culturale. Dico solo: attenzione al cosiddetto
recupero della memoria culturale! C’è una memoria culturale che viene
perseguita per trasmettere lo scontro, perpetuare la lotta nel presente,
anziché prosciugare le radici del conflitto. Non sono a favore della
dimenticanza, e posso dirlo con tranquillità di coscienza avendo lavorato
da storico perché i cristeros avessero il loro giusto posto nel
secolo XXI e nella storia della Chiesa; ma allo stesso modo non voglio che
questa memoria culturale serva a mantenere una cultura del conflitto e
della divisione tra messicani. La grande guerra è durata dall’estate
del 1926 all’estate del 1929, prolungandosi poi in una guerriglia
interminabile di altri dieci anni. La cristiada è stata una prova
terribile per il popolo messicano, terribili sono state le sofferenze dei
nostri padri, nonni e bisnonni. Se è giusto che la memoria culturale
debba conoscere, conservare e anche tramandare questi fatti, non deve però
coltivare l’odio e il rancore.
Quando dice che non bisogna
ritornare a parlare della cristiada, né fare operazioni di
recupero della memoria storica per fomentare le divisioni ideologiche, a
chi si riferisce?
Esattamente al pericolo che sia una certa destra nazionale a recuperare i cristeros.
Io credo che sarebbe molto triste, perché non corrisponde alla realtà
storica e anche perché darebbe ragione - a posteriori - al Governo che in
quegli anni perseguitava la Chiesa.
Perché?
Perché i discendenti di quei dirigenti rivoluzionari dell’epoca
avrebbero buon gioco nel dire: vedete chi li rivendica? Avevamo ragione:
erano di destra, erano protofascisti, erano controrivoluzionari, erano
difensori del latifondo; arriverebbe persino ad accusarli di essere
antisemiti o nazisti quando il Nazismo non esisteva ancora. Mentre io
insisto che i cristeros era gente aggredita che ha avuto una
reazione di legittima difesa.
Per la sinistra, i cristeros
sono stati una sorta di guardia bianca al servizio dei latifondisti…
Quando io iniziavo la mia ricerca,
quarant’anni fa, per la sinistra i cristeros non esistevano, o,
se pur gli si riconosceva esistenza fisica, sì, erano paramilitari di
destra, guardie bianche dei latifondisti, o, nel migliore dei casi, peones
tonti o lavoratori agricoli manipolati dal clero e dagli agrari per
impedire la riforma agraria in Messico. Oggi storici e sociologi di
diversa appartenenza politica - parlo di quelli minimamente seri -
riconoscono che la cristiada è stato un movimento popolare e che
quella religiosa è stata una motivazione importante e sincera del
movimento insurrezionale.
Ritiene che tutta la sinistra
messicana abbia assunto finalmente la cristiada nei suoi giusti
termini? Se la sente di fare questa affermazione con tutta tranquillità?
Non tutta, ma larga parte. Il mio editore è di sinistra; Siglo XXI è la
casa editrice dei grandi classici marxisti. Nel 1973, quando l’editrice
ha pubblicato il mio libro, ci voleva coraggio. Il libro, quando uscì,
non ebbe recensioni né promozione. Ma come l’acqua lentamente trova il
suo cammino verso la superficie, anche la verità storica si fa largo
nella selva dei pregiudizi e delle approssimazioni: oggi La Cristiada è
alla ventunesima edizione.
Vorrei capire bene il peso del
fattore religioso nella sollevazione. Lei precisa sempre che non è il
solo, che ce ne sono stati altri; ma in che misura il conflitto esplode
per un bene religioso conculcato - perché di questo si tratta, di un bene
materiale: l’esercizio della devozione e della fede -?
Esattamente; la fede è un bene materiale molto concreto. Ma, detto
questo, è anche vero che in ogni conflitto di queste proporzioni - come
durata e come estensione - non c’è mai una sola causa. Ci sono più
fattori che entrano in gioco, per lo più concomitanti e che si trasmutano
all’entrare in contatto tra di loro in tal maniera, che uno stesso
conflitto religioso in un momento storico dato non ha gli effetti
devastatori che ha in un altro momento, quando si combina con una
situazione politica determinata, nazionale o internazionale. In un regime
democratico, per esempio, possono esserci scontri a sfondo religioso molto
aspri senza che questo porti a sollevazioni…
E allora, quanto pesa il fattore
religioso in quel determinato momento del Messico rispetto ad altri
fattori, per esempio, agli interessi economici dei grandi proprietari
terrieri minacciati dalla riforma agraria?
Non è possibile rispondere alla sua domanda con precisione geometrica,
perché per certe persone il fattore religioso è stata l’unica causa
che li ha determinati a sollevarsi in armi; per altre la persecuzione
religiosa è stato un pretesto: ci sono stati banditi, politici, anche
rivoluzionari che in quel momento erano stati sconfitti o emarginati, che
nel conflitto religioso hanno visto l’occasione per una rivincita.
Alcuni - pochi per la verità - sono andati a combattere con i cristeros
senza essere neppure cristiani. Per molte persone, però, moltissime
direi, la sospensione del culto è stata la goccia che ha fatto traboccare
il vaso: gente che da molti anni soffriva per il caos della rivoluzione
messicana e che avrebbe sopportato ancora, che non si sarebbe ribellata, o
altri che sino a quel momento non si erano affatto mobilitati, organizzati
e meno ancora ribellati in armi; per questi il fattore religioso è stato
decisivo.
Si può dire che nell’insieme
delle motivazioni, delle cause e delle ragioni della ribellione dei cristeros
il fattore religioso è stato “molto” importante?
Di più. Si può dire con certezza che non è stata la causa unica, ma la
più importante. Senza di essa non ci sarebbe stata sollevazione
armata. Così come si può affermare, senza timore di sbagliare, che il
presidente Plutarco Calles non aveva previsto le conseguenze di quello che
faceva, quando mise in moto il meccanismo che, poi, portò alla ribellione
dei cristeros e a una guerra interminabile e tragica. E neppure il
Papa lo sapeva; lo stesso governo della Chiesa universale - la Curia
vaticana - era diviso alla stregua della Chiesa messicana. I vescovi
messicani non sapevano cosa fare davanti alla nuova situazione. I
governatori rivoluzionari, a loro volta, erano divisi; quello del Jalisco,
Barba Gonzalez, quando sta per iniziare il conflitto chiede udienza al
presidente Calles e la ottiene. Ho letto gli atti tachigrafici
dell’incontro. Si immagini un dialogo più o meno di questo tenore:
Barba Gonzalez: «Signor Presidente, sono molto preoccupato per la
direzione che sta prendendo il conflitto religioso; la gente si solleverà
in armi».
Calles: «No, no, i cattolici non si solleveranno; sono per lo più donne
e anziani che credono nell’al di là per paura della morte».
Barba Gonzalez: «No, signor Presidente, Le assicuro che in Jalisco è
diverso, i cattolici sono tosti…».
Calles: «Jalisco è il pollaio della Repubblica».
E Barba Gonzalez commenterà nelle sue memorie: «Che galli sono usciti da
quel pollaio!».
Calles: «Se si ribellano in armi meglio per noi e peggio per loro, così
li schiacciamo una volta per tutte».
Poi il Presidente si rivolge al generale
che era presente al colloquio, il temibile Amaro:
Calles: «Generale, in quanto tempo li possiamo schiacciare?».
Amaro: «In tre settimane, mio Generale».
E Barba Gonzalez commenta: «Speriamo che non ci vogliano tre anni».
Occorsero esattamente tre anni.
Se Barba Gonzalez è stato una sorta di
Cassandra nelle fila del Governo, che profetizzò quello che sarebbe
avvenuto, nel caso della Chiesa cattolica abbiamo il suo equivalente:
monsignor Francisco Orozco y Jimenez, arcivescovo di Guadalajara. È
curioso, perché monsignor Orozco aveva la fama di uomo favorevole alla
lotta armata. La stampa del Governo - e anche quella internazionale - lo
descrivevano come un crociato. Mi ricordo un articolo apparso sulla stampa
francese di quegli anni che lo dipingeva come una sorta di templare
medievale, un monaco guerriero. Mentre non era così: monsignor Orozco ha
fatto l’impossibile per evitare la sospensione dei culti, cioè la
miccia che ha innescato la bomba cristera.
Monsignor Francisco Orozco y Jimenez è
stato uno dei pochi vescovi che negli anni della persecuzione non è
andato all’estero e non si è piegato all’espulsione del Governo. Lui
e un altro vescovo si nascosero nelle campagne e, curiosamente, vennero
coperti anche dai più acerrimi nemici dei cristeros. Nell’estate
del 1926, il momento spartiacque, l’Arcivescovo di Guadalajara discordò
dai suoi confratelli vescovi. In quell’estate la Chiesa decise di
sospendere il culto nelle chiese come risposta alla legge Calles, che
effettivamente era inaccettabile per chi aveva delle responsabilità di
governo di fronte ai cattolici messicani. Tra gli altri punti della legge,
uno - gravissimo - stabiliva che nessun sacerdote poteva esercitare la sua
professione senza essere stato previamente registrato nella segreteria di
Governo a livello federale, regionale e anche municipale. Per capire la
pericolosità di questo dispositivo bisogna tener presente che la legge
Calles arriva un anno dopo il tentativo di scisma promosso dal Governo,
seppur dagli esiti risibili.
Perché dice che è stato un
tentativo risibile?
Perché riuscirono a reclutare una dozzina di sacerdoti e nulla più, che
poi - con il passare degli anni - sono anche morti riconciliati con la
Chiesa. Ma in quel momento il tentativo apparve ben più minaccioso e non
poteva essere altrimenti. Conferire al Governo la prerogativa di assegnare
una licenza di esercizio - come se il sacerdozio fosse una professione -
era estremamente pericoloso. Non dimentichiamoci che era fresco
l’antecedente sovietico; così il popolo cattolico si scandalizzò e la
Chiesa messicana si spaventò…
E la Santa Sede?
In Vaticano si accese la luce rossa; la Santa Sede si allarmò oltremodo e
avvertì la Chiesa messicana: non passi in Messico quello che è successo
in Russia. Roma impedì ai vescovi messicani di accettare la legge Calles.
Dunque la legge Calles era
inaccettabile…
Sì, era inaccettabile per la ragione che ho detto; con l’aggravante che
la sua pericolosità era accentuata agli occhi della Chiesa dalle vicende
sovietiche e dal tentativo del Governo di fondare una Chiesa scismatica
nazionale messicana. Cosa fare, allora? Considerando anche che ogni
tentativo di modificare la legge Calles per vie pacifiche e civili non
aveva sortito risultati apprezzabili? Alcuni vescovi hanno pensato di
sospendere il culto pubblico, ed è quando Cassandra-Orozco parla; e parla
ai propri confratelli esattamente come il governatore Barba Gonzalez
parlava ai propri compagni di partito. Predisse la sollevazione, una lunga
guerra, il dissanguamento civile.
La maggioranza dei vescovi era confusa e
non sapeva che decisione prendere.
Si avvicina la data dell’entrata in
vigore della legge Calles, l’1 agosto del 1926. Pochi giorni prima, i
vescovi mandano un ultimo, disperato telegramma a Roma chiedendo
istruzioni, riferendo che tra di loro una minoranza era a favore della
sospensione del culto, un’altra minoranza era contro, mentre la
maggioranza aspettava indicazioni dalla Santa Sede. Alla fine Roma
risponde e risponde cripticamente: primo, è fatta proibizione di
accettare la legge Calles; secondo, si esige che si mantenga l’unità
della Chiesa messicana, del clero e dei suoi fedeli. Monsignor Francisco
Orozco y Jimenez non aveva potuto partecipare alle ultime deliberazioni
perché gli erano giunte notizie che si stava preparando la sollevazione
ne Los altos de Jalisco e corse a Guadalajara a convocare i
dirigenti laici delle organizzazioni cattoliche, di cui la principale era
la organizzatissima Union Popular.
Così inizia la cristiada…
a cura di Alver Metalli,
novembre 2001 www.tracce.it
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