Un giorno una voce
arcana gli ha detto: «Va’ e ripara la mia casa cadente». È l’inizio di una storia con due protagonisti che hanno stipulato un patto di reciproco soccorso. Uno è l’"Impresario" che sta nei cieli, l’altro un operaio con robuste mani da contadino, sostenute da una fede a prova d’intemperie, che ha ricostruito da solo, senza una lira, nel cuore dei monti Sibillini, sull’Appennino umbro-marchigiano, un monastero benedettino ridotto a un ammasso di ruderi. «Un castello regalato a Dio perché lo abiti nel suo silenzio», sorride arguto dietro le lenti il cappuccino senza età («Me la sono dimenticata»), il volto bruciato dal sole, il grembiule macchiato di calce, mentre racconta con commozione e stupore un "miracolo" di cui si sente umile strumento. Il luogo di questa vicenda, che pare uscita dai Fioretti del santo di Assisi, si può raggiungere solo a piedi, risalendo la Gola dell’Infernaccio, una valle tutta orridi e burroni, stretta e sottile come una fessura racchiusa fra due muraglie di calcare che lasciano filtrare lembi di cielo. In alto si apre a sorpresa su un pianoro luminoso. I benedettini vi fondarono nell’VIII secolo un monastero dedicato a San Leonardo che, passato nelle mani di diversi feudatari, fu consegnato nel 1500 ai camaldolesi e poi abbandonato. Padre Pietro, giovane sacerdote, lo scoprì scendendo dalla cima della Priora, una montagna prospiciente. «Arroccato su uno sperone, sembrava un altare al centro di una maestosa cattedrale. Provai subito una misteriosa attrazione, ma dovettero passare alcuni anni prima che potessi raggiungerlo. Quando finalmente, il 2 febbraio del 1965, m’inerpicai sull’altopiano, rimasi sconvolto: l’altare era andato distrutto sotto il crollo del soffitto e delle pareti, il pavimento era nascosto da un metro di letame, a testimoniare l’esistenza del monastero a fianco della chiesa era rimasto solo un arco di stile romanico e un tratto di mura. Di ciò che era stato un gioiello in mezzo ai monti Sibillini, non rimanevano che pochi ruderi ricoperti di rovi e di piante». Un miraggio irrealizzabile Fu allora che l’"Impresario" si fece avanti, complici la pace e la serenità della montagna che accorcia le distanze con l’aldilà. «Dentro di me si accese un sogno, ricostruire l’antico edificio nella sua bellezza originaria. Un miraggio irrealizzabile per il luogo inaccessibile e l’impresa umanamente impossibile. Eppure sentivo che Dio lo voleva. Io dovevo metterci le braccia e il cuore, Lui avrebbe fatto il resto». In attesa che i segni del cielo si manifestassero, padre Pietro la domenica pomeriggio saliva sull’altopiano dalla Madonna dell’Ambro, il santuario della zona dove viveva, e disegnava su un foglio di carta la struttura della chiesa, lo stile degli archi, l’arte usata nel porre le pietre in modo che nulla gli sfuggisse dell’antica costruzione. Quando parlava del suo sogno agli amici e ai confratelli, lo prendevano per matto. Alla fine i superiori, incalzati dal suo entusiasmo, cedettero alle richieste, a patto che ottenesse la proprietà del terreno sul quale sorgevano le rovine. Le mappe catastali rivelarono che quel pezzo di montagna apparteneva a Elena e a Leonardo Albertini, figli del senatore Luigi Albertini, il famoso ex direttore del Corriere della Sera cacciato dal fascismo. Padre Pietro partì per Roma, deciso a suonare al campanello dell’illustre famiglia, ma un gallonato portiere gli impedì ogni accesso. La nipote di Tolstoj Fu allora che per la seconda volta entrò in scena l’"Impresario". Mentre cercava di convincere il custode, vide con la coda dell’occhio uscire dal palazzo un’elegante signora: era Tania Tolstoj, nipote del grande scrittore russo e moglie di Leonardo. La fermò e le espose il motivo della visita. Con stupore si sentì rispondere: «Due anni fa mio marito mi parlava tanto di una chiesa situata in una montagna delle Marche che avrebbe voluto ricostruire. Gli presenterò la sua richiesta». Dopo pochi giorni arrivò una lettera in cui il figlio del senatore non solo gli donava il terreno, ma, anche a nome della sorella Elena, inviava 50.000 lire per iniziare i lavori. Il "ricostruttore" ebbe via libera. Prese una carriola, vi caricò un piccone, una pala, un paletto, mise un pezzo di pane in una busta e iniziò a salire: «Mi resi conto che stavo per iniziare una lotta al di sopra delle mie forze, pretendevo di dare la scalata al cielo, una vera follia. Mi sentii smarrito e tentato di desistere. Via via che avanzavo, il colle di San Leonardo sembrava sempre più lontano, le slavine provocate dalle abbondanti nevicate piombavano con rumori assordanti nel letto del fiume che costeggiavo, la Gola dell’Infernaccio sembrava non volermi far dimenticare il nome che portava, esibendo tutto il suo selvaggio furore. Facevo molta fatica a procedere, solo verso mezzogiorno riuscii a raggiungere il pianoro. Avevo fame, possedevo solo un tozzo di pane che lungo la strada mi avevano dato dei contadini. Costruii una mensa con due grosse pietre, mi sembrava di percepire un profumo particolare, che sapeva di amore, di bontà, di generosità. Sentii che in quel momento rivivevo con intensità le parole del testamento di san Francesco: "Ed assai volentieri stavamo nelle chiese poverelle e abbandonate… ed io con le mie mani lavoravo e voglio lavorare e fermamente voglio che tutti i miei frati lavorino… E quando non fosse dato a noi il prezzo della fatica ricorriamo alla mensa del Signore"». Da quel giorno sono passati 35 anni. Una pietra sopra l’altra, prelevate dal fiume e portate con la carriola, come i sacchi di cemento, 25 chili alla volta, 18 quintali di tubi, quattro anni e mezzo per caricarseli tutti, e far arrivare l’acqua da una sorgente. Ogni giorno alzarsi prima dell’alba e lavorare fino a sera, sfidando la pioggia, la neve, il freddo, il caldo, la stanchezza sempre più greve con l’avanzare dell’età. Unico finanziatore la Provvidenza e quelle grandi mani che hanno trasformato ogni sasso in preghiera perché «le pietre materiali dovevano essere soltanto il simbolo di una ricostruzione spirituale». Così il monastero e la chiesa di San Leonardo sono rinati e l’"Impresario", ora anche "Inquilino", ha ripreso il suo posto con tutti gli onori, quando il vescovo di Fermo è venuto a consacrarli. Centinaia di persone salgono lassù per incontrare "l’eremita" («ma non lo sono, nei mesi invernali vado a Roma», precisa lui) e cercare una risposta a fatiche e sofferenze: «Spesso pranzo con loro. È un momento tanto importante: mangiare insieme vuol dire incontrarsi, avere un dialogo, imparare a conoscersi e comprendersi, soffrire insieme, soprattutto donarsi gli uni agli altri. Purtroppo oggi non c’è più tempo per questi valori che ci permettono di affrontare con più serenità e coraggio i grandi problemi che ci assillano». Ma c’è tempo per intralciare con la burocrazia un "miracolo" di fede, amore e carità come questo. L’Ente Parco dei monti
Sibillini ha accusato il cappuccino di avere svolto i lavori senza un
piano esecutivo e regolare permesso e ha minacciato un’ordinanza per la
demolizione dell’opera. Padre Pietro si difende: «Con la creazione del
Parco io sono diventato abusivo anche se il mio progetto era stato
approvato dalla Giunta, dalla Soprintendenza e dalla Regione. I documenti
che avevo presentato erano stati fatti sparire perché nel 1992 volevano
trasformare questo luogo in una Cortina d’Ampezzo, al posto della chiesa
costruire un ristorante. Un giorno, un elicottero scattò delle foto del
campanile, poi arrivarono tre mandati di comparizione, dovetti demolire il
campanile, ma poi ho ricominciato a ricostruirlo. Non potevano riuscire
nel loro intento, perché era Lui che aveva fatto il progetto, io glielo
dissi: "Con me ce la fate, con Lui no"». Fonte: rivista "Famiglia Cristiana", n° 81 del 18/12/2005 |