Se oggi scoppiasse un'atomica |
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Decine di milioni di morti in pochi
minuti. Emissioni di gas nell'atmosfera paragonabili alle eruzioni
vulcaniche del Monte Pinatubo o Tambora. Ripercussioni su scala globale
più catastrofiche degli effetti locali. È lo scenario – apocalittico ma
non fantascientifico – a cui assisteremmo se si scatenasse un conflitto
nucleare su scala regionale. A più di sessant'anni dalle bombe su
Hiroshima e Nagasaki, lo spettro atomico – mai scomparso – ha cambiato
volto. E se oggi appare improbabile uno scontro tra superpotenze, scampato
durante gli anni la Guerra Fredda, la tensione politica in alcune zone del
mondo e il crescente peso che le testate nucleari giocano negli equilibri
fra stati rendono più concreto il rischio di una guerra atomica locale.
Le conseguenze umane e ambientali di una simile eventualità sono descritte
su Science di questa settimana da un
gruppo di ricercatori statunitensi guidati da Owen Toon del Dipartimento
di scienze atmosferiche e oceaniche della University of Colorado. Per
certo, otto nazioni possiedono ordigni all'uranio arricchito (Stati Uniti,
Russia, Regno Unito, Francia, Israele, Cina, Pakistan e India), in più la
Corea del Nord potrebbe avere un piccolo arsenale e l'Iran – che continua
a perseguire i suoi piani nucleari a dispetto degli ultimatum dell'Onu –
potrebbe dotarsene entro qualche anno. Altre 32 nazioni, comprese Brasile,
Argentina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, possiedono abbastanza
materiale fissile da produrre armi atomiche. Leggere, compatte,
realizzabili con le informazioni che circolano su Internet e facilmente
trasportabili, ecco le bombe moderne. Mentre ci sono moltissimi
fattori politici, economici e sociali in grado di scatenare una guerra
regionale, c'è un unico vero ostacolo ala costruzione di una bomba: la
limitata disponibilità della materia prima.
L'ipotesi considerata nello studio è l'attacco e il contro-attacco tra due
paesi come India e Pakistan per un totale di 100 ordigni da 15 chilotoni,
ciascuno equivalente alla bomba su Hiroshima, fatti detonare su metropoli
densamente popolate. Le radiazioni, dicono gli autori, ucciderebbero quasi
all'istante almeno 21 milioni di persone, la metà dei morti della Seconda
guerra mondiale. La contaminazione ambientale, i danni estesi alle
infrastrutture e i traumi psicologici porterebbero all'abbandono di intere
aree abitate, con severe ripercussioni economiche e sociali. Gli effetti
indiretti sulla temperatura terrestre, le precipitazioni e la durata delle
stagioni sconvolgerebbero la produzione agricola, come l'eruzione del Laki
del 1783/84 (che provocò carestie in Africa, India e Giappone). Ma
l'impatto globale sarebbe persino peggiore di quello locale: le esplosioni
rilascerebbero da una a cinque tonnellate di particelle di fumo
nell'atmosfera, oscurando il cielo e provocando “sostanziali anomalie
climatiche” capaci di minacciare la sopravvivenza di gran parte del
genere umano.
Come scongiurare il pericolo, riportando indietro le lancette del
metaforico Doomsday Clock che ora segna cinque minuti alla mezzanotte
atomica? “Sarebbe necessaria una politica di disarmo per avviare il
mondo all'eliminazione totale delle testate, a partire dagli stati
nucleari”, invoca Francesco Calogero, professore ordinario di fisica
teorica all'Università di Roma La Sapienza e membro del Pugwash: “La
responsabilità della proliferazione è dei paesi che non si sono fatti
carico di diminuire l'importanza strategica delle armi atomiche: Usa e
Russia, che hanno arsenali eccessivi, Regno Unito e Francia, che
mantengono arsenali inutili. Non ci si può aspettare che il disarmo inizi
da paesi come India e Pakistan o Israele”.
Il Trattato di non proliferazione non basta più per dirsi al sicuro perché
non è riuscito a prevenire l'espansione di nuovi stati nucleari, dicono
gli autori dello studio. “Quarant'anni fa ha avuto meriti grandissimi
nel rallentare la corsa agli armamenti”, aggiunge Calogero, “e
impedire ciò che probabilmente sarebbe successo, ma non è più
rilevante nel momento in cui ci sono stati che non lo hanno firmato”.
L'unica via d'uscita, anche secondo ricercatori statunitensi, è
l'eliminazione delle armi nucleari, la ratifica di un “Comprehensive Test
Ban Treaty” mondiale, il controllo dell'arricchimento dell'uranio e lo
stop globale della produzione di materiale fissile. Resta però un
interrogativo: se anche tutto il mondo dicesse addio alle armi atomiche,
il terrorismo non potrebbe continuare a possederne? “L'uso eventuale
di armi atomiche da parte dei terroristi è un problema reale”,
ammette Calogero, “rispetto al quale, tuttavia, la disposizione di armi
nucleari non cambia niente, anzi forse rende solo più probabile l'attacco.
Nelle relazioni fra stati il possesso di armi può funzionare per
dissuadere altri stati dall'uso, ma nel caso dei terroristi no. In un
mondo in cui ci sono più armi, è solo più probabile che i terroristi ne
entrino in possesso”.
Daniela Cipolloni - 06/03/2007
Fonte:
http://www.galileonet.it
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