Un difficile itinerario alla scoperta della natura intatta per ritrovare l'uomo essenziale di Primo Levi L'11 aprile di vent'anni fa, moriva Primo Levi. Nato a Torino nel 1919, laureato in chimica, partecipò alla Resistenza, ma venne arrestato e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Ritornato in Italia, racconta la tragica esperienza vissuta nei lager nazisti nel libro Se questo è un uomo, diventando presto lo scrittore piemontese più conosciuto nel mondo. Per ricordare la sensibilità nei confronti della vita e la sua testimonianza di uomo e di scrittore proponiamo l'articolo che nella primavera del 1985, scrisse appositamente per i lettori della rivista Piemonte Parchi. *** Alla ricerca del silenzio Ad eccezione di casi estremi, gli uomini e le donne mi piacciono, o mi divertono, o almeno mi interessano. Mi interessano anche le loro opere, purché siano adatte allo scopo per cui sono state pensate: i figli della mano e quelli della mente (in specie i figli della mano e della mente), cioè alla rinfusa, i libri e gli attrezzi agricoli, le case e i tessuti, i campi arati e le macchine, i gioielli, gli aerei, le fotografie, i ponti. Mi piace confrontare fra loro i recipienti: scatole, bottiglie, pentole, secchi, sacchi, cisterne, i silos per i cereali; più in generale, tutti i manufatti destinati a contenere cose o creature che altrimenti si disperderebbero, e quindi anche le stie per i polli, i recinti per le pecore, le dighe, gli otri. Un giorno ai contenitori dedicherò un saggio riverente. Però mi attirano di più gli spazi in cui l'uomo e la sua opera sono assenti. Ormai non è più facile trovarne in Italia, che è sovraffollata: lo è visibilmente, basta affacciarsi a una qualunque delle sue frontiere. Non c'è campo che non sia stato arato, da secoli, da millenni; non c'è valico che non sia solcato da un sentiero, quando non addirittura da un'autostrada. I suoi stessi fiumi portano i segni della presenza umana, in forma di argini, di scali, di ponti; in tempi storici o preistorici, i fiumi, i torrenti, i ruscelli sono stati domati o violentati. Spesso, ed è il paesaggio più malinconico, l'opera umana permane, ma in rudimenti: è stata interrotta ed il tempo l'ha consumata, resa illeggibile. E' frequente trovare in collina o in montagna, campi abbandonati, invasi dalle erbacce, ma che portano ancora il segno dell'aratro; a volte il grano o la segala si sono inselvatichiti, e sopravvivono in steli isolati, orfani. Altrove si riconoscono fossati asciutti che non sono certo opere di natura: forse sono frammenti di canali di gronda, forse trincee di guerra dimenticate da secoli. In altri luoghi ancora si trovano miniere abbandonate, e nei boschi strane radure: un tempo quando il carbone di legna era un importante articolo di consumo domestico, era sede delle carbonaie, la cui costruzione e conduzione erano arti millenarie che si stavano perdendo. Per trovare la natura intatta, così com'era prima che l'uomo facesse la sua comparsa, nel mio Piemonte bisogna cercare a lungo, evitando le pianure, intensamente umanizzate. Bisogna varcare la soglia delle poche foreste che ancora rimangono: ma non inoltrarsi troppo, se no si rischia di uscire dalla parte opposta; e non scandalizzarsi se s'incontrano, stampate nel fango, le impronte dei pneumatici mostruosi di un trattore, o cartucce di cacciatori, o scatole di sigarette, o lattine di coca cola. E' tempo meglio speso salire al di sopra degli ultimi pascoli: qui "praeteri figura huius mundi", ci si trova immersi, a seconda della stagione, nella nebbia, nella neve intatta, fra pietraie macchiate dai licheni, o magari anche fra sterpi e spini. Si trova un senso austero di continuità al pensare che così doveva essere il mondo quando "l'uomo non era". Dove non c'è niente da trovare, né funghi, né selvaggina, né cristalli, è raro incontrare esseri umani: siamo esseri sociali finalistici, pochi tra noi cercano la solitudine come bene a sé stante. Perché la cerca chi la cerca? Non c'è un motivo unico, e spesso coesistono vari motivi. Per reazione all'attrito urbano, all'ossessione delle presenze umane, dei manufatti; nelle città perfino il "verde pubblico" è artificiale, manomesso; non ha più nulla di nativo. Per ritrovarsi pedoni, senza intermediari, senza ruote, in comunione col suolo: ed infatti compatibilmente con l'ambiente, c'è fra noi chi si scalza per sentire la terra e l'erba. Per ritrovare il silenzio, e qui occorre precisare. Il silenzio assoluto è a sua volta un artefatto: lo si può trovare, ad esempio se si entra da soli in fondo a una miniera, o in una grotta dove non corra acqua, o nelle camere prive di risonanza che usano gli acustici per le loro misure. Questo silenzio non è umano né terrestre: è sinistramente oppressivo, sa di clausura e di sepolcro e spinge alla fuga; forse perché vi si sente il monito del proprio cuore. Il silenzio che noi cerchiamo non è così severo, è rotto dal vento, da acque lontane, dalle cicale, dai grilli, dai cani in fondo alla valle, dalle campagne, dalle voci degli uccelli. A volte anche dal ronzio di un aereo, ma questo non disturba, così come non disturba, nel mare, il profilo di una nave lontana. Può essere il rombo attutito di un apparecchio ad elica, che suona bonario e pigro come quello di un bombo in cerca di nettare; più sovente oggi, è il sibilo di un reattore, otto dieci chilometri al di sopra di noi, puntiforme, quasi invisibile se non fosse dalle due scie candide che si lascia dietro. Esse permangono a lungo, per ore; il vento le distorce e le sfuma senza distruggerle; a poco a poco diventano nuvole e si confondono con le altre nuvole. Sono il portato casuale di un'innovazione tecnica, ma non deturpano il cielo e non inquinano il pensiero. Ecco, questo è il punto. Il pensiero vive dappertutto, anche in un filatoio, anche nel ventre di una nave da carico, anche nel traffico delle ore di punta, anche negli uffici, ma è un altro pensiero, costretto, obbligato. Quello di cui abbiamo bisogno, a tratti, per non perderci, è il pensiero lieve e libero dei nostri antenati pastori e agricoltori, a cui erano famigliari i tragitti delle nuvole ed i cammini delle stelle e dei pianeti. Ne abbiamo bisogno per ritrovare noi stressi non più padroni, ma ospiti del pianeta. *** Testo di Primo Levi - foto di Toni Farina Fonte: www.piemonteparchiweb.it - Aprile 2007 |