PRIMO LEVI. Quando Levi morì (11 aprile 1987), Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così:

«È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale».

VENT’ANNI DOPO, IL RICORDO DI FERDINANDO CAMON

Lo scrittore torinese moriva l’11 aprile 1987. Testimone di Auschwitz, negli ultimi tempi dal rifiuto del divino era passato a un «Lo cerco, ma non lo trovo»: un’apertura?

 Sulla soglia dell’indicibile.
 Primo Levi

«Tre giorni dopo il "suicidio" mi arriva la sua ultima lettera: ecco, adesso mi spiega perché si è ucciso. La apro: un inno alla vita»

Primo Levi è morto di sabato, il martedì dopo m’è arrivata una sua lettera. Mi viene addosso una tristezza infinita e mi dico: «Ecco, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi». Mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega, che lui si uccide adesso ma doveva farlo quarant’anni prima, e che dunque le spiegazioni non vanno cercate in quel che succede adesso, ma in quel che era successo 45-40 anni prima. Questo m’aspetto, aprendo la lettera, che dev’essere stata l’ultima che ha scritto e imbucato. Se m’è arrivata al martedì, doveva averla imbucata il sabato: dunque durante la passeggiata che faceva ogni mattina.

La apro: un inno alla vita, un vortice di programmi, speranze, attese, da riempire settimane, mesi e anni. In quei giorni stavo cercando di farlo tradurre in Francia da Gallimard: con mia enorme sorpresa, il libro di Levi, il suo capolavoro assoluto: I sommersi e i salvati, non era passato. Da Parigi mi chiamava al telefono il direttore della Gallimard, Hector Bianciotti, grande scrittore argentino di origine italiana, ora membro dell’Académie Française, e mi diceva: «Ferdinando, non ci piace». Non potevo crederci. Chiamai il quotidiano Libération e concordai di scrivere un intero paginone, per spiegare ai francesi perché dovevano tradurre Primo Levi. È in questo frattempo che Levi muore.

Nella sua ultima lettera, mi chiede se Gallimard vuole un’altra copia de I sommersi e i salvati, mi chiede una copia di Libération con l’articolo che lo presenta ai francesi, si mette a disposizione per tutto quel che può servire. L’articolo è uscito due giorni dopo la morte di Levi, e da quel momento il destino delle sue opere in Francia ha avuto un andamento grottesco: chiama la Gallimard, m’informa che l’editore Albin Michel ha preso I sommersi e i salvati, anche loro vogliono I sommersi e i salvati. Una settimana chiamano per dirmi che loro «sono disposti a prendere di Primo Levi tutti i libri che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro». Albin Michel protesta: «Lo avevate rifiutato, io l’ho preso, perché mi ostacolate?». Mi chiedono una fotocopia della lettera di Primo Levi: la prova che Primo Levi voleva Gallimard. E così la faccenda s’è chiusa. Primo Levi rifiutato in Francia è la ripetizione di Primo Levi rifiutato in Italia. Se questo è un uomo era stato letto, nella casa Einaudi, da Natalia Ginzburg, e respinto.

Quando Levi morì, Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: «È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale». Come possono due editori importantissimi non capire opere che varranno fino al Giudizio Universale compreso? La risposta che mi viene è che c’è "troppo", in quelle opere.

Questa risposta è legata a mia valutazione di Primo Levi scrittore, che è la seguente: Primo Levi ha vissuto la massima colpa della storia, non al grado massimo in cui la colpa fu commessa, ma al grado massimo in cui poteva essere raccontata. Levi era un chimico. Un chimico studia le reazioni nel contatto tra elemento ed elemento. Levi ha osservato e descritto le reazioni nel contatto tra l’uomo più potente e il più debole. Il primo fa della propria volontà la legge della storia. Se il potente uccide, il delitto è giusto perché il potente lo vuole. Questo sistema è riassunto nell’incontro fra Levi e il dottor Pannwitz. Il dottore sta esaminando Levi, è proprio un esame di Chimica. A un certo punto alza gli occhi e lo guarda. Anche Levi lo guarda. Levi cerca di capire il proprio pensiero e il pensiero dell’altro. L’altro pensa: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». Nel proprio cervello, Levi sente formarsi questo pensiero: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi». Levi doveva rendere quel che di utile conteneva, e morire. Non doveva né sopravvivere né scrivere.

Nella sua sopravvivenza e nella sua scrittura c’è stato un doppio fallimento del sistema lager. Il sistema lager non ha agito su Levi con tutta la sua forza. Perché Levi era un chimico, perché ha imparato il tedesco, perché non si è mai ammalato, e perché ha avuto la fortuna di ammalarsi negli ultimi giorni, evitando la marcia della morte, l’evacuazione dal lager (raccontata da Elie Wiesel).

Claude Lanzmann ha incontrato superstiti del lager che hanno sofferto di più, sono stati torturati o hanno lavorato ai forni. Davanti alla macchina da presa, si torcono, piangono, o svengono. Dicono qualche parola, non di più. Hanno passato il limite del dicibile. Levi è arrivato a quel limite. Forse non lo ha retto, e questo potrebbe spiegare la sua morte. Sono andato a trovarlo più volte, e ho raccolto in un librino i nostri dialoghi.

Nell’ultima risposta dice: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». Era una negazione drastica dell’esistenza di Dio. Quando gli ho mandato il testo per le correzioni, ha aggiunto, a matita: «Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo». Era una riapertura: non c’è, la cerco, non la trovo, la cerco ancora.

Rigirandomi la sua ultima lettera fra le mani, mi dicevo: spero che l’abbia trovata.

di Ferdinando Camon (Avvenire, 01.04.2006)

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